Palazzo Chigi

Draghi Gatsby. Brinda con la stampa. La Nato può attendere

Carmelo Caruso

Il saluto del premier: "Lascio con la buona coscienza del lavoro fatto". Il grazie ai chigisti tra spumante e battute. Il ricordo di venti mesi

Roma. Si è licenziato e ci ha licenziati. Urrà. La piccola “impresa” Mario Draghi ha chiuso l’attività (forse) Niente lacrime, a Palazzo Chigi, il più infelice sorrideva. Era un giornalista e aveva già bevuto due bicchieri di spumante presidenziale. “Tranquilli, ora arriva lo Spritz”, diceva Draghi di persona personalmente. Doveva essere un saluto, il saluto del premier ai “chigisti” (che vitaccia) e invece è stato un brindisi alla libertà, sua e nostra. Cestinate gli articoli sulla sua seconda vita. Raccontano che Draghi abbia già rifiutato la guida della Nato. E infatti, come Gatsby, “Mario Jay Draghi” insegue ora la sua Daisy, le sue cose belle, e probabilmente domani ci rimprovererà perché “voi del Foglio siete creatori creativi. Al giornalismo!”. Salute! 

Invitati, come fosse il ricevimento di Gatsby a West Egg, i giornalisti sono entrati nientemeno che nella Sala verde. Ascensore, anticamera. “Prego”. La Sala verde è la sala con tutti i faccioni dei premier compreso quello di Mussolini appeso alla parete: “Camerati!”. Lo rimuoviamo pure qui? Saranno stati quaranta, forse cinquanta, giornalisti di carta stampata, televisioni, agenzie, e se Paola Ansuini, la portavoce di Mario Draghi, che sta per tornare a Bankitalia (preparatele l’ufficio) li vede per strada saranno guai. A qualcuno tirerà probabilmente le orecchie: “Anche oggi volevate fare qualche domanda. Non vi fermate mai”. Abbiamo perso il conto dei piani. L’usciere ci ha riferito che eravamo al secondo, ma, come avete capito, era il secondo bicchiere di prosecco. Draghi stava al terzo piano (crediamo).

 

Gli onori di casa li ha fatti Giuseppe Cioeta, responsabile della Sala stampa, l’uomo che guarda passare i premier (30!) e che avrà il privilegio di vederne ancora un(a). La Rai dovrebbe commissionargli un documentario. Ha confidato un giorno a un cronista: “Il più bel ricordo? Forse quello di Giovanni Goria che parcheggiava la sua Autobianchi, qui a Chigi”. Non ci sono state notizie (se c’erano le abbiamo perse) e Draghi non voleva darne a parte le licenze: “Domande? No, no. Ma lei mi fa sempre la stessa domanda! E non applaudite mi raccomando. Grazie. Avete aiutato i cittadini a comprendere qualcosa che viene visto come misterioso”. E poi ancora: “Ah, eravate felici per i miei venerdì? Insomma eravate contenti quando non c’ero”. Ogni venerdì Draghi lasciava Roma e con lui i giornalisti lasciavano nell’armadio l’ansia del “buco”, della notizia che manca. Con Draghi è alla fine tornata la disciplina del comunicare al posto della mescalina di Giuseppe Conte e di Rocco Casalino. Erano pillole che si ingoiavano per scrivere meglio: “70 righe di retroscena. E’ di Rocco. Oh, yeah”. Aveva ragione Draghi nel dire, e lo ha detto: “Non posso rispondere. Il mio silenzio potrebbe essere interpretato”; “Sono stati venti mesi straordinari. Lascio con la coscienza del lavoro ben fatto. In venti mesi ho imparato troppe cose”. Aveva ragione intorno al silenzio. Abbiamo interpretato, per più di un anno, i silenzi, studiato le smorfie di Antonio Funiciello, il suo capo di gabinetto. C’era ovviamente pure lui e teneva i “pugni in tasca” che furono di Marco Bellocchio. Lavora a un libro sulla leadership che uscirà per Rizzoli. Dunque era così che superavano le serate difficili. Scrivevano. Alessandro Aresu, consigliere economico, sta per pubblicare per Feltrinelli “Il dominio del XXI secolo”. E’ un saggio incentrato sulla lotta tra Usa e Cina ma si intreccia pure con la lotta che Aresu ha ingaggiato per ottenere il primato di più stonato al karaoke. Quando canta “Non amarmi/ per paura/ di qualcosa di diverso” non ce n’è per nessuno. Per la foto ufficiale è apparso pure Roberto Garofoli, il “soprasegretario”, a cui si racconta hanno regalato un metronomo, lui che lo è stato del governo. Tornerà al Consiglio di Stato ma chi lo ha visto dice che non sembra più lui. Ha bevuto un elisir. Una mattina inforcava degli occhiali da sole magnifici e raccontava a un amico: “Non posso che fare i miei auguri a chi viene. Giancarlo (Giorgetti) all’Economia sarebbe un bel nome”.

 

Ferdinando Giugliano, che si occupava di media internazionali, ha già fatto gli scatoloni. Vuole fare il mammo di Carlo. Quella nascita gli ha addolcito il volto. Nicola Lillo, spalla di Giugliano, resta maestro di cravatte. Pure ieri. Se ne vanno, tra pochi giorni, questi ragazzi che a voi non diranno niente ma che sono stati la meglio gioventù di governo, la Draghi young: Riccardo Liberatore, Cristina Altomare, Anna Sciortino, Aldo Iannotti della Valle. Per scherzare, sempre qualche impertinente ha chiesto a Draghi: “Presidente, ma torna?”. Quando lo ha sentito ha accelerato il passo. Non sia mai, lo sequestrano nuovamente. Del resto si sa come finiva Gatsby: “Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato”. 

 

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  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio