I totem e i tabù da abbattere a destra

Oscar Giannino

Il metodo freudiano applicato all’agenda del governo che verrà. Dai trilemmi dell’economia al sovranismo, dai bisogni del Nord produttivo a quelli del Sud assistenzialista, dal lavoro alla povertà: quali sono le convenzioni da superare nel grande caos italiano. Un’indagine

In un sopravvalutatissimo scritto del 1913 di quel geniaccio inventore di cliché del Novecento che fu Sigmund Freud, limitate ricerche antropologiche di allora su aborigeni australiani vennero correlate all’esperienza di nevrosi e nevrotici osservata da Freud. Il titolo dell’opera, “Totem e tabù”, è entrato nel repertorio della conversazione pubblica occidentale, applicato a una tale congerie di disomogeneità da perdere il significato testuale concepito dall’autore. I tabù erano le convenzioni morali basilari non dichiarate né scritte ma di fatto praticate dagli aborigeni, in primis di carattere sessuale per impedire incesti e decadenza genetica. I totem, la personificazione animata o inanimata di forze esterne spirituali, demoniache o magiche, alle quali attribuire eventi naturali e correlazioni fattuali, fuor dalla volontà e dal controllo umano non solo per effetto della natura matrigna, ma anche quando in realtà erano dovute agli umani eccome. 

  
Usiamo dunque il metro freudiano applicandolo all’incarico di governo che tra qualche giorno arriverà, gravido di rischi e difficoltà, all’onorevole Giorgia Meloni
(caveat, per chi pensasse sia meglio usare per lei categorie tolkieniane e non freudiane: lo faccio apposta, considero paccottiglia infondata l’intera interpretazione, abusata per decenni, dell’opera di Tolkien come fondata su valori e categorie totalitarie e razziste; chi conosca Tolkien sa che servì in guerra nell’esercito inglese, e che disprezzava profondamente “quel dannato piccolo ignorante di Adolf Hitler che sta rovinando, pervertendo, distruggendo, e rendendo per sempre maledetto quel nobile spirito nordico, supremo contributo all’Europa, che io ho sempre amato, e cercato di presentare in una giusta luce”). 

   
Da una parte, dunque, una serie di totem numinosi da abbattere e di cui liberarsi. Dall’altra, una serie di tabù non dichiarati ma protervamente capaci di deviare il cammino dall’obiettivo, se non li si supera. Li alternerò, anche se sono intimamente intrecciati l’un l’altro, nel grande caos irto di rischi che il prossimo governo eredita non per colpa di Mario Draghi, ma per via di potenti fattori esogeni e per la pluridecennale storia di un’Italia a fortissimi squilibri interni, iperindebitata, a produttività stagnante, bassa partecipazione al mercato del lavoro, bassa qualità del capitale umano formato dalla formazione pubblica, ingiusta verso poveri, giovani, donne, immigrati e alcuni milioni di lavoratori troppo poco pagati e tutelati.

    

Totem numero uno: il sole di Austerlitz

Si è visto al primo giorno in Senato. No, le elezioni del 25 settembre non sono per Giorgia Meloni ciò che il 2 dicembre 1805 sulle alture di Pratzen fu per Napoleone. No, oggi non c’è nessun “Impero che riappare sui colli fatali di Roma”. Per due ragioni scritte a lettere di fuoco nei risultati elettorali e da non dimenticare mai, a pena di dire e fare sciocchezze. La prima è che la destra non ha ottenuto nessuno storico sfondamento nei consensi degli italiani: i voti del centrodestra furono il 49,6 per cento nel 2001 e poco più nel 2006. La maggioranza ottenuta si deve alla man bassa nel terzo uninominale di collegi grazie al Rosatellum, ma i voti raccolti restano quelli del 2018. E la vittoria nettissima di Fratelli d’Italia non va considerata affatto un mandato di lungo periodo. Nel 2018 il primo partito nel maggior numero di comuni italiani erano i Cinque stelle, nel 2019 alle europee era la Lega, oggi è Fratelli d’Italia, ma la storia degli ultimi anni è un rapido falò di ogni illusione post vittoria celebrata da tripudianti “una nuova fase storica si apre”. Non è così, i voti della destra, quelli di prima restano: solo che negli anni i consensi in maggior numero raccolti da Forza Italia passarono poi alla Lega, e oggi quelli della Lega e di Forza Italia, potentemente ridimensionatisi insieme, sono passati a Fratelli d’Italia. Non aumentano, si travasano. Sono affidamenti pro tempore. Il che spiega perché Salvini sarà ferocemente votato a riprenderseli creando un guaio al giorno al governo al Meloni. Che ha fatto bene anche per questo a non festeggiare, non solo per la sofferenza acuta in cui le bollette spingono gli italiani. La vittoria del 25 settembre indica con chiarezza una sola cosa: bisogna evitare di farsi rodere dall’ansia assumendo misure e toni da “svolta storica”. Il voto degli italiani ha solo premiato di volta in volta chi non era stato messo alla prova sin lì. Ergo serve lavorare su un progetto che abbia dichiaratamente di fronte a sé anni di realizzazione, per mostrare gli effetti non di riformette-bandiera, ma di misure incisive che in un paese vischioso come l’Italia hanno bisogno di tempo lungo, per cambiare le cose. E bisogna anche partire oggi solo dalle due emergenze vere: l’energia e la necessità di evitare follie su finanza pubblica e alleanze internazionali.

  

Dire addio alla gabbia sovranista. Non servono riformette-bandiera, ma misure incisive che hanno bisogno di tempo per cambiare le cose. Affrontare la crisi energetica, evitare follie su finanza pubblica e alleanze internazionali

  

Tabù numero uno: i trilemmi

Il trilemma neoclassico è quello elaborato tra il 1960 e il 1963 dagli economisti Marcus Fleming e Robert  Mundell, perciò denominato “modello Mundell-Fleming”. Che innova profondamente il modello IS-LM di Keynes, perché questi considerava un mondo in cui vigeva il controllo di ogni nazione sulla libertà dei capitali. In sintesi, il trilemma afferma che non si possono avere insieme piena libertà dei capitali, politiche monetarie sovraniste-nazionali, e cambi fissi.  Nell’economia moderna e sempre più interdipendente, puoi avere solo due di queste tre cose, non tutte insieme se no finisci gambe all’aria. Con l’euro, abbiamo scelto una moneta unica rinunciando a manipolare tassi d’interesse per combattere l’inflazione effetto della svalutazione della lira che avevamo praticato per decenni, e abbiamo scelto i vantaggi della libertà dei capitali e di un cambio libero, frutto però della forza di un mercato assai più vasto della sola Italia.  C’è poi il trilemma dell’economista Dani Rodrik, molto più recente e figlio delle critiche alla globalizzazione: è impossibile perseguire insieme la democrazia, la sovranità nazionale e la globalizzazione dei mercati. Per Rodrik devono prevalere politiche nazionali e democrazia nelle diverse sue varianti nazionali, la globalizzazione è un falso mito perché le grandi potenze non accettano regole comuni. C’è poi il trilemma della stabilità finanziaria: non è possibile perseguire insieme stabilità finanziaria di un paese, libera mobilità dei capitali, e politiche sovrane, in realtà può farlo solo chi ha una valuta di fatto utilizzata sia come riserva mondiale sia come strumento di transazione accettato su tutti i mercati globali. I tre trilemmi si sovrappongono e dicono praticamente la stessa cosa, sia pur riferendosi a strumenti economici e politici diversi. E sono assunti come base ideale di ogni richiesta di ritorno al sovranismo nazionale. Di fatto sono utili a rappresentare dei vincoli chiari tra scelte appetibili concorrenti, ma con effetti divergenti. Ma l’interpretazione sovranista li ha erroneamente resi un tabù inviolabile.  Per un paese trasformatore come l’Italia, povera di commodities e materie prime, che ha sperimentato il disastro pluridecennale di credere nella svalutazione monetaria come apparente strumento competitivo al posto della produttività e dell’innovazione tecnologica per piazzare i suoi beni nei mercati mondiali, con un’altissima inflazione, una finanza pubblica sempre più in deficit e una politica monetaria che era ancillare rispetto a una politica di bilancio deficista, la scelta più vantaggiosa interpretando i trilemmi è diventata storicamente obbligata: non il ritorno al sovranismo monetario piegato a comprare il debito pubblico, ma la scommessa sulla libertà dei capitali, l’adesione a una moneta unica che esprime la forza del mercato unico europeo, la necessità di battersi per una globalizzazione a regole condivise, multipolare e capace di limitare il dumping sociale praticato dalla Cina e il ricatto dei prezzi energetici praticato dalla Russia. Quella globalizzazione, sia pur imperfetta, che aveva fatto aumentare come mai il numero di democrazie nel mondo, e per i paesi più poveri aveva abbattuto come mai nella storia il numero di abitanti sul pianeta Terra considerati per reddito sotto la soglia del minimo vitale quotidiano per sopravvivere. Quando fino a pochissimi anni fa Giorgia MelonI ripeteva l’antieurismo dei Salvini-boys, era ancora ferma al tabù del trilemma in chiave nazionalista. Ora bisogna essere inequivoci ogni giorno, sul fatto che non ci si riconosce più nella gabbia sovranista.

       

Totem numero due: il Sud

L’interpretazione obbligata del voto del 25 settembre è basata su una correlazione univoca. Sua Quasità Conte ha perso milioni di voti sul 2018, ma è riuscito nel miracolo di ottenerne molti più delle aspettative erronee di chi lo dava per morto, percorrendo in lungo e in largo le piazze del Sud e conquistandovi il primato di partito più votato con il 25,3 per cento dei consensi. La correlazione fortissima è che nelle aree del Sud basta incrociare i dati dei percettori di reddito e pensione di cittadinanza con quelli dei voti ottenuti da Conte, e la sovrapposizione è pressoché totale. Di qui una serie di infondate ma diffuse deduzioni. Conte è diventato di sinistra e sarà lui a indicare la strada futura al Pd. Il Sud è assistenzialista ed è questa la vera strada da percorrere di fronte al suo tremendo gap di reddito, integrazione e ascesa sociale. Ergo ancora: al Sud serve molta più spesa pubblica del 40 per cento riservatagli dal Pnrr. La prima deduzione è falsa perché se qualcuno crede davvero che Conte sia di sinistra o di qualunque altra cosa, invece di un trasformista opportunista, sono fatti suoi e ci sono medici buoni. Per il totem di cui qui parliamo contano la seconda e la terza: abbracciarle come verità divina è un errore capitale, questo totem va abbattuto. Non farlo è un errore che la destra nella Seconda Repubblica ha già compiuto. Con effetti disastrosi. Berlusconi vinse nel 1994 convinto che occorresse parlare due lingue diverse, una al Nord con la Lega di Bossi e una nel Centro-Sud affidandosi a Fini e An. Bossi dopo un po’ lo mandò a casa.  E sul Reddito di cittadinanza – di cui parleremo oltre – la destra attuale ha un colpevole in prima fila di cui tutti disinvoltamente si dimenticano. Andatevela a rivedere, la trionfale conferenza stampa del 17 gennaio 2019 in cui un radioso Conte era affiancato alla sua destra da Di Maio e a sinistra da un ridanciano Salvini, perché il leader della Lega per Salvini credeva di aver fatto un grande affare nel baratto congiunto, l’orrenda Quota 100 per sé in cambio di un Reddito di cittadinanza scritto con i piedi ma bandiera dei Cinque stelle. La dobbiamo a Salvini, la nascita del Rdc. Qualcuno dovrebbe ricordarglielo, ora che frigna instancabilmente. No, il Sud non chiede assistenzialismo come ricetta unica. Ci si abbarbica se è l’unica ricetta che gli si propone.  Se il nuovo governo ne fosse convinto, serve una strategia che va oltre i progetti e gli stanziamenti del Pnrr, una strategia per questa legislatura e la successiva cioè decennale: fatta di risorse per scuola e università da destinare in maniera innovativa sulla base delle performances ottenute; di un affiancamento delle reti territoriali di ricerca e innovazioni che esistono e sono già forti intorno a Napoli, Bari e Catania; sull’attrattività di insediamenti di una decina grandi imprese internazionali collegate alle reti di cui sopra; e oltre le Zes su una decina di progetti-pilota speciali, laddove si annidano i casi più drammatici di abbandono scolastico, illegalità, lavoro nero e sfruttato. E il nuovo premier ci deve mettere la faccia, e incardinare una squadra speciale di competenze esterne alla politica da affiancare al ministro incaricato. La vera risposta al piagnisteo di chi rimpiange l’intervento straordinario al Sud è un progetto Italia-Sud 2032, e metriche nuove per giudicare l’efficacia di stanziamenti e politiche. Per fermare la fuga di giovani meridionali, diventata un esodo di massa.

 
Tabù numero due: il Nord

Il 25 settembre Fratelli d’Italia si è scoperto primo partito del Nord Italia, con il 28,8 per cento che nel Triveneto raggiunge cifre anche di 8 punti superiori. Negli anni alle nostre spalle, prima della sua crescita impetuosa nei sondaggi nell’ultimo biennio, era un partito i cui consensi più elevati erano radicati al Centro e al Sud. Ora la sfida è radicalmente cambiata. E deve vincere un tabù grande come la torre di Babele. Vanno rottamate le politiche che negli ultimi anni Salvini aveva imposto alla destra come se fossero ciò che si aspettava il Nord produttivo. Una bufala infondata, che lo ha portato al Nord a una sconfitta umiliante e micidiale, per chiunque non sia come lui indifferente ai fatti. Funzionava così: voi governatori del Piemonte, Lombardia, Veneto e Friuli occupatevi di quei rompiscatole di imprenditori, io porto a casa misure epocali come i prepensionamenti di Quota 100 che servono alle industrie del Nord e il forfait tributario per le partite Iva. Peccato che Quota 100, un flop onerosissimo per l’Inps, sia stata utilizzata soprattutto dai dipendenti pubblici, ed era follia credere che l’aliquota fissa per le partite Iva rispondesse ai problemi e alle aspettative dell’industria manifatturiera, e al segmento di più elevata innovazione e tecnologia dei servizi che al Nord si annidano. Al neo premier serve una squadra esperta non “del” Nord, ma “dei” Nord produttivi. Professionisti che abbiano sulla punta delle dita i rapporti di OtiI Nordovest sul fabbisogno di infrastrutture promesse da decenni che non sono risolte dal Pnrr e imbottigliano logistica e connessione ai mercati europei.  Che conosca a menadito le reinterpretazioni territoriali delle reti d’impresa fatte dalla Fondazione Nord-Est. Che sappia bene che di Lombardia produttive non ce n’è una ma ce ne sono quattro diverse, vedi gli studi di Aldo Bonomi e dal consorzio Aaster. Che non sia persa l’evoluzione nel tempo di accordi di ricerca e promozione di innovazione e tecnologia costruite da filiere e università, come l’affermazione dei più avanzati contratti aziendali di welfare integrativo e partecipazione, che sono in enorme maggioranza al Nord e a cui Adapt ha appena riservato un’analisi approfondita. Il premer dovrà dedicare tempo e occasioni pubbliche non di circostanza al Nord: perché la lista di aspettative deluse nell’interesse dello sviluppo produttivo, di occupati e di innovazione lì e lunghissima. Se hai un pezzo d’Italia che se la batte con Baviera, Baden-Württemberg, Catalogna e Auvergne-Rhône-Alpes, devi riuscire a farne un riferimento costante delle politiche nazionali di proiezione in Europa, promuoverne sinergie e joint venture perché di lì provengono il più delle oltre 15 mila imprese italiane che detengono partecipazioni in imprese estere con 1,8 milioni di dipendenti e oltre 500 miliardi di fatturato (vedi banca dati Reprint-PolitecnicoMi-Ice). Quel che è certo è che il Nord conosce poco la Meloni, si aspetta molto, ma la musica che si aspetta è molto diversa da quella sin qui propinatagli. 

 

La necessità di un progetto Italia-Sud 2032. La lotta alla povertà non coincide con il Reddito di cittadinanza. Serve una vera banca dati nazionale dell’assistenza. Un altro tabù da superare è che l’industria sia piagnona. Le misure  per il lavoro e  quelle per risolvere la follia della piramide tributaria e contributiva. Sì subito al rigassificatore di Piombino

  

Totem numero tre: la povertà

Il totem da abbattere è credere che la lotta alla povertà coincida con il Reddito di cittadinanza. L’errore è credere di abbatterlo cassandolo in quanto tale. Va riformato sì, non cassato. Ma il punto è un altro: anche su questo drammatico tema serve una strategia seria pluriennale. Che parta da una domanda fattuale, basata sui numeri. In 13 anni in Italia abbiamo raddoppiato la spesa pubblica in assistenza a carico della fiscalità generale (e coprendola buona parte in deficit), ma abbiamo anche raddoppiato il numero dei poveri. Come è possibile? Una seria analisi dei dati dà risposte esaustive. Serve innanzitutto una decisione politico-istituzionale che è da anni sul tavolo, eternamente rinviata. I dati parlano chiaro. La spesa sociale a carico della fiscalità – cioè calcolata al netto della parte previdenziale pagata dai contributi, nonché al netto della spesa dello stato procapite in scuola, sanità e assistenza non coperta per ogni scaglione di contribuenti dalle imposte realmente pagate, calcolo complesso ma che riserva molte sorprese – ammontava a 73 miliardi di euro nel 2008, in costante crescita fino ai 114 miliardi del 2019 pre Covid, ai 144,7 del 2020 e ai 150 miliardi sorpassati del 2021.  Nel 2008, i poveri assoluti calcolati dall’Istat erano 2,1 milioni: anch’essi in costante ascesa, hanno superato la soglia dei 4 milioni nel 2013 e quella dei 5 milioni nel 2018, nel 2020 e 2021 sono arrivati a 5,6 milioni. Le persone in “povertà relativa” – faticano ad arrivare a fine mese – erano 6,5 milioni nel 2008 e sono saliti a 8,8 milioni nel 2019 pre Covid, che pure fu anno di crescita robusta. Non solo non abbiamo concentrato su di loro i massicci incrementi di spesa sociale, nel frattempo la miriade di misure assunte ha fatto impennare il debito pubblico. La dispersione degli interventi è dovuta alla natura delle misure predilette dai partiti in questi ultimi anni, i bonus a tempo – che poi però restano – ciascuno dei quali disegnato per platee Isee diverse, ma senza che sia davvero possibile per lo stato capire se chi in quella platea ne beneficia li stia sommando ad altri sostegni nazionali, di regioni e comuni. Anche le misure migliori – l’assegno unico per nuclei familiari ad esempio, nata con l’idea di razionalizzare tutti i sussidi e le detrazioni precedenti – non è riuscito a evitare che in realtà l’aggravio a carico di fiscalità generale-deficit fosse di 7 miliardi di euro in più l’anno. Se si fa un calcolo approssimato dei beneficiari delle misure in corso rispetto a quanto pagano di imposta reale, quasi il 50 per cento degli italiani incassa sussidi “sociali”, non i poveri veri. Una percentuale assurda. 

 
Per fare marcia indietro serve una vera banca dati nazionale dell’assistenza, basata su interoperabilità di ogni banca dati pubblica centrale e locale in materia di fisco, previdenza e lavoro. Senza di essa, lo stato non sa se davvero se chi percepisce il beneficio non lo cumuli con molti altri, non sa quale sia la stima locale delle ragioni della sua difficoltà economica, ignora se cerchi attivamente lavoro e persino se non abbia carichi penali tali da suggerire che sia un truffatore. La banca dati nazionale dell’assistenza fece capolino nelle intenzioni pubbliche nel 2001. Ma non è mai nata. I partiti hanno scelto un’altra strada, convinti che alle urne paghi di più. Un enorme errore. Un disegno serio pluriennale di lotta alla povertà significa tutto questo. E anche, vista la nostra disastrosa curva demografica, un vero e proprio Servizio nazionale per l’Autosufficienza, con organizzazione, gestione e risorse proprie rispetto al resto del sistema socio-sanitario: ne sono nati a questo nel 1993 in Austria, nel 1995 in Germania, nel 2002 in Francia, nel 2006 in Spagna. Qui da noi, ancora niente. 
 

Tabù numero tre: l’industria

Nove giorni fa il Centro studi di Confindustria ha presentato un rapporto di un centinaio di pagine sulla condizione attuale del sistema industriale e manifatturiero italiano. Spero che il prossimo premier abbia il tempo di leggerlo. Quando la bolletta energetica dell’industria aumenta di 110 miliardi di euro nel 2022 a prezzi attuali, più che raddoppiando la sua quota sul totale dei costi industriali, l’emergenza è assoluta e viene prima dei tanti problemi irrisolti dalle bislacche politiche industriali a pezzi e bocconi seguite alla ripresa con Draghi di Industria 4.0, che i governi Conte avevano inabissato. Il tabù da superare è che l’industria sia piagnona, perché a inizio 2022 si era presentata dicendo che la crescita sarebbe stata debole con questi prezzi energetici mentre proprio l’industria ha registrato invece nei primi due trimestri ben oltre il 3 per cento la crescita del pil quest’anno, continuando ad accrescere nel primo semestre 2023 di oltre il 7 per cento l’export dopo i 581 miliardi del 2021, per tre quarti realizzati dalla manifattura. Invece l’allarme era fondato eccome: ora ci troviamo con un rallentamento mondiale che spinge proprio verso lo zero e poco più la crescita 2023, e la richiesta di misure strutturali sul gas lanciata subito dopo l’invasione russa si è rivelata fondatissima. Confindustria ha ora detto che, se dal prossimo Consiglio europeo dopo 8 mesi di ritardo non esce almeno un accordo sul “canale dinamico” cui sottoporre il prezzo del gas indicato da Draghi, non basteranno certo i 15-18 miliardi a trimestre di sussidi a famiglie e imprese sin qui attuati senza deficit aggiuntivo, grazie all’enorme messe di entrate addizionali dovute alla crescita ma che oggi purtroppo vengono meno.  Se l’Europa solidale dell’energia non nasce, il governo dovrà dare in un paio di settimane risposta alle attese impellenti di imprese e famiglie. Ma, in quel caso, serve una grande capacità di presentarle in Europa, prima di adottarle. Quel che deve essere chiaro è che se l’Italia deve aggravare il suo deficit per coprire in bolletta sotto una certa soglia i consumi di imprese e famiglie, non è per volontà scassaconti, ma per l’asimmetria che le decisioni Ue creano a sfavore di paesi senza carbone, senza nucleare e senza spazio di agibilità fiscale, esattamente la condizione dell’Italia.  Molti sottolineano che i 200 miliardi stanziati dalla Germania in realtà seguono l’esempio italiano. Veramente i 200 di oggi si aggiungono ai quasi 100 già stanziati precedentemente a tal fine dalla Germania: ma la Germania non ha un’economia quintupla di quella italiana, e il conseguente gap competitivo per le imprese italiane è fortissimo, violando i presupposti del mercato unico.

 
Totem numero quattro: il lavoro

Qui i totem da abbattere sono due: il lavoro in Italia è una torta fissa, neanche negli anni di ripesa migliore riusciamo a superare   i 23 milioni di occupati (comprendendovi anche i cassintegrati); il lavoro involontario a tempo si combatte con leggi che lo rendano o impossibile o carissimo. Sindacati e sinistra su questo, anche il Pd la cui parola d’ordine è diventata “rottamiamo il Jobs Act”, saranno avversari tosti di ogni strategia diversa. Se dovesse prevalere il richiamo dalla foresta della “destra sociale”, che storicamente non la pensava molto diversamente sui due totem, allora la novità del 25 settembre su questo fronte si azzera. Al contrario, abbattere i totem significa anche su questa materia rifuggire da parole d’ordine e misure-bandiera, e insieme sottrarsi alla facile trappola mediatico-politica sempre pronta a scattare: “Ah vabbé, allora state con le imprese e non coi lavoratori”. No, si tratta di stare con gli italiani. In poche settimane andrebbe annunciato un pacchetto di misure organiche volte a tre finalità: innalzare la partecipazione al mercato del lavoro secondo stime annuali soggette a verifica, per effetto delle misure assunte a tal fine; intervenire sulle modalità riservate alle agenzie private del lavoro nelle politiche attive del lavoro, formazione e ricollocazione dei lavoratori; misure contro il mancato rispetto dei diritti sanciti nei Ccnl. Innalzare davvero la partecipazione significa che gli Its riformati non bastano, sono una goccia nell’oceano, servono riforme sull’offerta formativa della scuola e più lauree professionalizzanti, misure di potenziamento della conciliazione del carico familiare e parentale che oggi impediscono una più alta partecipazione al lavoro delle donne. Rafforzare il ruolo delle Apl rispetto agli inefficienti centri pubblici per l’impiego cui si destinano miliardi significa attivare meccanismi diretti di gara per le risorse da affidare, che premino i miglior risultati delle Apl in termini di placement e replacement di chi è disoccupato; significa pensare a una certificazione delle competenze e della formazione dei lavoratori come voce aggiuntiva del bilancio patrimoniale delle imprese, e che ogni lavoratore si porti dietro di impresa in impresa nel suo percorso lavorativo. Quanto agli oltre 2 milioni di italiani e immigrati sfruttati: partire dalla legge di rappresentanza di chi firma i contratti, di cui i governi italiani hanno nel cassetto dal 2014 i criteri già definiti da un accordo interconfederale raggiunto appunto 8 anni fa, e una lotta senza quartiere alle finte cooperative e finti microsindcati che realizzano accordi di sfruttamento in settori dei servizi che sono ben noti, ma che la politica sin qui non ha voluto toccare.    

 
Tabù numero quattro: l’energia 

 Il tabù su questo punto è: bastavano sussidi temporanei, poi o la questione russa si sarebbe risolta riabbassando il prezzo del gas oppure la Ue avrebbe fatto il bis del Next Generation Eu sul Covid. Non è accaduta né l’una né l’altra cosa. E ora siamo nella condizione ben descritta nei suoi interventi dal presidente di Nomisma Energia, Davide Tabarelli, che sette mesi fa veniva additato come un matto allarmista. Purtroppo, nel breve non  bastano i nuovi approvvigionamenti di gas da paesi diversi, cercati e sottoscritti dal governo Draghi, che verranno nei prossimi anni, né la crescita delle rinnovabili nel breve può supplire al problema. Mentre la bolletta energetica nazionale italiana, ha appena scritto l’Ocse qualche giorno fa, rischia nel 2022 di salire dal 4,5 per cento del pil media annua 2019-21, al 13 per cento del 2022. Nel breve non basta certo solo continuare nello sblocco in Consiglio dei ministri delle molte opere infrastrutturali energetiche su cui continuano i veti locali, strada già aperta dal governo Draghi e che va cominciata dal “sì” subito al rigassificatore al porto di Piombino. Se dalla Ue al Consiglio Ue non esce un sì al “canale dinamico” al prezzo del gas proposto da Draghi e dalla coalizione e di paesi membri costruita da Draghi, bisogna anche essere pronti a sostituire il più delle misure di sussidio a impese e famiglie sin qui adottate e che valgono 15-18 mld a trimestre , con un intervento di copertura pubblica fino a un certo tetto di consumo in bolletta elettrica, che potrebbe costare fino a 20 mld in più degli attuali sussidi.  Su come spiegarlo prima in Ue, vedi sopra. Il gas è e sarà necessario per una transizione energetica ordinata: credere di azzerarlo oggi è una follia.  


Totem numero cinque: il fisco 

Il totem è rappresentato dalla falsa flat tax a 18 aliquote della Lega, e dal fatto che occorra varare subito almeno un forfait sull’aumento di reddito fino a una certa cifra di superamento delle attuali aliquote Irpef. Va superato. Il governo si trova ad avere un vastissimo margine di riforma, poiché la legge delega di riforma fiscale è naufragata.  Il nuovo premier faccia capire dunque se intende muoversi in una visione organica di riforma che abbisogna di un paio d’anni più la sua attuazione, e che riveda in logica strutturale i grandi problemi irrisolti della tassazione tra cose e persone, la distruzione dell’Irpef con crescente sottrazione d’imponibile erraticamente sottoposto ad aliquote forfettarie, l’abbattimento dell’Irap, la sostituzione dell’Ires attuale con un’aliquota più bassa per imprese che reinvestano gli utili, e proporzionalmente a salire per imprese che invece destinano quote crescenti dell’utile a remunerare i soci. La base da cui ripartire e a cui mettere mano è la follia della piramide tributaria e contributiva oggi attestata dai dati ufficiali. A oggi, 7,8 milioni di pensionati su 16 milioni sono sussidiati, perché i loro contributi non coprono affatto la pensione che incassano. E a malapena il 4,6 per cento di contribuenti italiani versa un’Irpef almeno pari, superiore o molto superiore ai circa 17 mila euro di spesa pubblica procapite: sono solo loro, che sussidiano tutti gli altri per scuola, sanità, servizi e bonus pubblici, li sussidiano per la quota che naturalmente non diventa invece debito aggiuntivo. Ci sarà la voglia di non occuparsi solo dei forfait elettorali sull’Irpef, ma di far capire se davvero questa destra vuol dare al paese un sistema fiscale strutturalmente più favorevole alla crescita e meno squilibrato da bonus attribuiti senza giustificazione che non sia la coltivazione di constituencies elettorali?

 

Tabù numero cinque: Europa e occidente

I tabù da abbattere su questo, Giorgia Meloni sembra averli chiari: ha scelto inequivocabilmente la via atlantica e Nato sulla questione Putin-Ucraina, e sin qui non si è più visto l’antieuropeismo che ispirava i suoi interventi sovranisti. Si dice che parte della sua base storica mormori, di fronte ai nuovi toni. Non c’è da stupirsene. Ma sta solo a lei far capire che per non finire defenestrati come tutti quelli che hanno vinto le precedenti elezioni, bisogna oggi radicare un’idea di destra non trainata da vecchie parole d’ordine, passati remoti indifendibili, e compagni di strada autoritari come Orbán, ma tenacemente radicata allo stato di diritto, all’Europa senza la quale da autarchici saremmo perduti sotto il peso del debito, e all’occidente delle libertà.