Il caso

I bilaterali di Meloni con Salvini e il Cav. "Dove vanno? Li aspetto in Senato"

Simone Canettieri

La leader di FdI vede prima il capo della Lega, poi va a casa di Berlusconi. Manca un'intesa su ministeri e Camere: "Sono ottimista, dovranno abbassare le pretese"

“E’ l’ultima volta che vado io da lui”, ripete Giorgia Meloni ai colonnelli che l’osservano salire in auto diretta verso Villa Grande, la residenza romana di Silvio Berlusconi. Quando diventerà premier incaricata anche questa prassi cesserà: non ci saranno più queste visite a domicilio che iniziano a darle a noia.  Intanto le tocca.  La leader di Fratelli d’Italia si fa accompagnare da Ignazio La Russa, che però non partecipa all’incontro. Il presidente in pectore del Senato rimane fuori dalla sala. Dentro ci sono solo loro due: Giorgia e il Cav. Il faccia a faccia produce un nulla di fatto.  Un rinvio che mette un po’ di adrenalina sulla giornata di oggi, senza esagerare. La fotografia della vigilia non è delle migliori: la nuova classe dirigente non è d’accordo su nulla. Specie Meloni e Berlusconi.  

Il capo di Forza Italia chiede un pacchetto di ministeri pesanti: Giustizia, Esteri, Sviluppo economico e Turismo “come risarcimento per non aver preso nemmeno una delle due presidenze della Camere”. La leader non cede, conosce le insidie e i retropensieri che si portano appresso certe richieste. Dice di noi ai vicepremier. E soprattutto, confessa, l’idea di presentarsi al Colle con una lista di nomi che poi le sarebbero respinti non è una scena che vuole vivere. “E dunque decido io”, ripete a Berlusconi con il quale i rapporti sono tesi, per usare un eufemismo. E Matteo Salvini? Fa finta di non essere interessato alla zuffa: “Sto andando dalla mia fidanzata”, quasi fischietta quando lascia la Camera dopo una giornata di incontri. 


Morale della favola: il vertice risolutivo del centrodestra non c’è stato nemmeno questa volta. E dunque tecnicamente non c’è alla vigilia della prima prova della coalizione – l’elezione questa mattina del presidente del Senato – un’intesa. Gli alleati di Meloni vanno in ordine sparso,  restituendo però l’impressione della tenaglia. 

Facile che un giro di telefonate ci sia prima che inizino i voti per le presidenze dei due rami del Parlamento. Soprattutto a Palazzo Madama dove si entrerà subito nel vivo, a differenza di Montecitorio. “Stanno tirando la corda, ma dove vogliono andare?”, si sfoga Meloni uscita dalla residenza berlusconiana. A chi le chiede come va spesso risponde con l’emoticon di una donna che fa yoga e che dunque è in fase zen. Calma e gesso. Li conosce.

I leghisti per tutta la giornata hanno avvertito i cronisti in Transatlantico: “Guardate che il problema non siamo noi, ma il rapporto fra lei e Forza Italia”. In effetti la doppia pedina messa da Salvini su Senato (con Roberto Calderoli) e Camera (con Riccardo Molinari) non sembra agli occhi degli uomini di Meloni uno scoglio insormontabile. “Fa parte della trattativa per i ministeri”. Non a caso il Carroccio poi fa uscire una dettagliata lista della spesa (Economia, Viminale, Infrastrutture e Autonomia).

Ben diversa è la meccanica che anima Forza Italia e Fratelli d’Italia. La copertura di Berlusconi a Licia Ronzulli, il malessere di Antonio Tajani che si vede messo da parte dalla senatrice plenipotenziaria, le “durezze” di Meloni che non è intenzionata a farsi imporre nomi e caselle. “Parliamoci chiaro: senza di noi non governeranno mai, dunque prima o poi dovranno abbassare le pretese”, ripete da giorni la premier in pectore, consapevole del piombo sulle ali che le stanno mettendo gli alleati. 
Meloni, prima di andare da Berlusconi, ha anche modo di incontrare Salvini. Consultazioni parallele, ma divise. Entrambi i partner di governo sparano grosso, sono realisti e vogliono l’impossibile. Di sicuro, non sembrano intenzionati a stenderle un tappeto rosso con la scritta: prego, Giorgia, governa pure. Meloni dice di aver chiara la dinamica e dopo questi bilaterali sancisce che non ci saranno altri vertici di centrodestra. Con il gusto della sfida di chi si dice certo ottimista dà appuntamento ai suoi alleati al Senato. Per vedere fino a dove si spingeranno. “Aspetto la votazione”, dice con una sicurezza mista forse a irritazione. E lo spettacolo deve ancora iniziare.
Simone Canettieri

  • Simone Canettieri
  • Viterbese, 1982. Al Foglio da settembre 2020 come caposervizio. Otto anni al Messaggero (in cronaca e al politico). Prima ancora in Emilia Romagna come corrispondente (fra nascita del M5s e terremoto), a Firenze come redattore del Nuovo Corriere (alle prese tutte le mattine con cronaca nera e giudiziaria). Ha iniziato a Viterbo a 19 anni con il pattinaggio e il calcio minore, poi a 26 anni ha strappato la prima assunzione. Ha scritto per Oggi, Linkiesta, inserti di viaggi e gastronomia. Ha collaborato con RadioRai, ma anche con emittenti televisive e radiofoniche locali che non  pagavano mai. Premio Agnes 2020 per la carta stampata in Italia. Ha vinto anche il premio Guidarello 2023 per il giornalismo d'autore.