Destini incrociati

Le brutte giornate parallele dei renziani e dei dimaiani, tra dubbi, veti e ansie

Marianna Rizzini

Gli uni, quelli di Italia viva, corrono da soli e se la prendono con il Pd che "prova aprova a mettere insieme tutto e il contrario di tutto". Gli altri, Impegno civico, sono appesi al diritto di tribuna, cercando sponde affini, magari in Federico Pizzarotti. E c’è chi dice che al centro “c’è ancora spazio”

Sorti parallele, diverse eppure uguali, tanto per cominciare per l’ansia giustificata che sprigiona dai due gruppi non affini di Italia Viva e di Impegno Civico, ora uniti dalla contingenza di essere coloro che si trovano non soltanto sospesi, ma anche in una posizione quantomai scomoda (e invisa a molti), roba che il “disagio” manifestato dai Verdi e dalla Sinistra dopo l’accordo Pd-Azione è nulla. Prendi i renziani, che adesso devono combattere da soli, come dice Renzi. E la prospettiva non rallegra del tutto chi, nelle truppe pur arringate dal leader da social e schermi, ha quasi quasi l’impressione di essere trattato, dal Pd e non solo, come colui e colei che si avvia alla bella morte.

L’unica strategia per sconfiggere la destra era un polo riformista”, diceva Renzi ieri, mentre la giornata rendeva plasticamente palpabile la tensione nell’andirivieni in zona Montecitorio e palazzo Madama: andirivieni dai capigruppo, andirivieni tra colleghi, andirivieni da buvette e bar, e relativo silenzio sui social mentre di nuovo parlava lui, Renzi (“noi siamo gli unici coerenti che mettono le idee davanti ai seggi”) e il deputato-testa di ponte Luciano Nobili, che da giorni twitta e retwitta, e che a “L’Aria che tira” ribadiva: “Il Pd ha inseguito per tre anni un’alleanza contro natura con il M5s, che è naufragata miseramente. E ora invece di fare una proposta di chiarezza prova a mettere insieme tutto e il contrario di tutto”.

 

Tuttavia l’amarezza si faceva strada: per Calenda “che poteva fare il terzo polo a due cifre”, per Emma Bonino che “ne ha fatto un caso personale”. Soprattutto, racconta un insider, per “dover ora correre veloci lungo il ciglio del burrone”. Cercava di infondere ottimismo la capogruppo alla Camera Maria Elena Boschi, con parole motivazionali: “Valiamo il 5 per cento, saremo decisivi in molti collegi, vogliamo dare risposte al Paese, non assegnare poltrone sicure…non sottovaluterei nemmeno tanti amici del Pd che il loro voto a Luigi Di Maio e Nicola Fratoianni non lo regaleranno”. Ed è proprio all’intersezione dei destini diversi ma ugualmente angosciosi che si trovano gli altri, i dimaiani che, nel caso Di Maio accetti il “diritto di tribuna”, si troverebbero a dover fare la seconda scelta difficile in pochi giorni, dopo quella, specie per alcuni, di lasciare il Movimento (che fare ora?).

 

Si ragiona e ci si raggruppa, e ci si indigna anche un po’, tra chi oltretutto è al primo mandato (e sono in quaranta a esserlo). Il pensiero corre a che cosa sarebbe successo restando di là, ma subito l’idea di Giuseppe Conte contro Mario Draghi, in più con Alessandro Di Battista sulla testa, diventa deterrente per i rimpianti. Ma il futuro? C’è chi vorrebbe che Di Maio non accettasse la tribuna e andasse da solo, magari cercando sponde affini in Federico Pizzarotti. C’è chi dice che al centro “c’è ancora spazio”, basta guardare e avere un “sussulto di orgoglio”. E chi (più come battuta) non esclude il patto col diavolo, per modo di dire: allearsi “tecnicamente” proprio con il Renzi inviso, per traghettarsi oltre il momento avverso.

 

Pare un rompicapo: “Con Renzi? Non possiamo”, dicono i dimaiani memori delle parole anti-Renzi spese in passato. “Sciogliere ora Impegno Civico e andare come? Con chi?”, è il pensiero dei pessimisti. “Aspettare fiduciosi”, dice un deputato che pure rischia il nulla, vista la clausola dell’accordo Letta-Calenda in cui i due leader si impegnano “a non candidare personalità che possano risultare divisive per i rispettivi elettorati nei collegi uninominali. Conseguentemente, nei collegi uninominali non saranno candidati i leader delle forze politiche che costituiranno l’alleanza, gli ex parlamentari del M5s (usciti nell’ultima legislatura), gli ex parlamentari di Forza Italia (usciti nell’ultima legislatura)”.

 

Ed ecco che la stessa, impalpabile inquietudine attacca il volto di Sergio Battelli, deputato dimaiano che neanche un mese fa si mostrava sereno nel definire Di Maio “persona pragmatica” e nel dire che la scissione dal M5s  “è la scissione più grande della storia della Repubblica”, e quello pur sorridente della deputata e presidente renziana della commissione Trasporti Raffaella Paita, che su Twitter postava una sua intervista in qualche modo pontiera: “Corriamo da soli, Giovanni Toti aiuti l’unico centro che c’è”. La sera calava nel caldo, mentre si gonfiava l’attesa della riunione operativa di Italia Viva. Di là, intanto, i dimaiani commentavano quella del giorno prima con il leader, riunione in cui, secondo molti, era stato detto troppo poco. E si attendeva non senza patema la prossima. 
 

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.