"Mi manda Mario"

Draghi ribadisce sostegno all'Ucraina, ma in Parlamento è sempre il Donbas

Si prepara il Consiglio Ue. La resistenza di Germania a chiudere i rubinetti russi

Carmelo Caruso

Il premier si fa sponsor dell'adesione Ucraina. Al Consiglio Ue c'è chi spinge per ulteriore sanzioni e chi no. Sul fronte parlamentare si torna a porre la questione di fiducia su dl Sostegni. L'insidia resta la riforma della giustizia

È “mi manda Mario” perché “l’Italia vuole l’Ucraina nell’Unione europea” e “voglio dire al presidente Zelensky che l’Italia è a fianco in questo processo”. E’ il patrocinio, si direbbe lo sponsor, che non spalanca le porte dell’Ue ma che olia i negoziati con la Ue. E dunque non è la solita promessa, quella che Mario Draghi ha formulato in Parlamento collegandosi con il presidente ucraino, la lode alla resistenza che è “eroica”. E non è naturalmente la garanzia che il processo di adesione, il “fateci entrare” ucraino, la domanda, la lenta valutazione, possa essere abbreviata. Eppure c’era chi spiegava, e lo spiegavano dal governo, che nessun premier europeo, almeno finora, si era espresso in maniera tanto chiara e che ormai la sorte non esclude nulla neppure l’ingresso come “opzione politica”. Significa la porta aperta come gesto occidentale, la scelta di campo, dalla parte dell’aggredito contro la barbarie dell’aggressore qualora ci fosse “una precipitare degli eventi”. 

 

Ecco perché, ed era l’altro passaggio dell’intervento del premier, quel “a chi scappa dalla guerra dobbiamo offrire accoglienza” ma di fronte ai “massacri, dobbiamo rispondere con gli aiuti, anche militari”. L’Italia dunque procederà, ancora, con l’invio di materiale bellico e lo farà grazie a quel Decreto Ucraina che ha di fatto creato l’impalcatura giuridica. Ogni qual volta si stabilirà una nuova spedizione basterà una “comunicazione” alla Camere e non più il voto, quella passerella che giova ai “parlamentari vlad”, gli inzuppati dell’“e però”, l’anti resistenza contro la resistenza ucraina.

 

Domani, prima alla Camera e poi al Senato, Draghi comunicherà in vista del Consiglio Europeo. Non si prevedono, o almeno non lo prevede il governo, il varo “di un ulteriore pacchetto di sanzioni”. Dall’Ue, dalle bozze che circolano, si risponde: “Non va escluso”. L’alea è tuttavia un’altra. E’ fare in modo che l’Europa possa resistere alla severità della sanzioni già applicate. Neppure quel “vedremo, vedremo” del premier, a Palmanova, sulle forniture del gas russo, equivale al “rinunceremo al gas russo” da subito. Il Consiglio Europeo, che si è caricato di attese, l’Italia lo immagina come l’occasione per fare la riforma dell’energia che Roberto Cingonali, nella sua informativa alla Camera, chiama il “Repower Ue”. Tra le misure c’è anche quella di “aiuti di stato”. E tra le norme che entreranno, accettate da tutti e 27 i paesi, c’è la tassazione degli extra profitti che in Itala è stata già adottata e che aveva fatto gridare all’incostituzionalità. Un altro tabù infranto.

 

L’ambizione è però sempre il price cap, il prezzo fisso del gas. Si tratta di un percorso a passaggi. Una volta ottenute queste modifiche in sede europea sarà più facile per i paesi Med (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia) e non solo (la Germania è un’altra delle nazioni più vulnerabili sul lato energetico. Scholz ieri ha ancora detto “no”) chiudere i rubinetti del gas russo. L’ospite d’onore nella giornata di giovedì sarà invece il presidente americano Joe Biden. Si va verso una “McUe”, l’atlanmediterraneo. Per tutto ciò che riguarda le riforme, il Donbas parlamentare, quello che si può dire è sono sempre più dei dossier in mano al “soprasegretario” Roberto Garofoli. La delega fiscale slitta di una settimana per sminare le insidie (era previsto il voto in aula entro il 28 marzo). Rimane la grandine di emendamenti presentati per modificare la riforma Cartabia. Draghi aveva promesso che non avrebbe posto al questione di fiducia (oggi è stata posta sul dl Sostegni, domani è previsto il voto). Il rischio è di non vararla. Si è voluto lasciare libertà al parlamento e dunque si lascerà sempre al parlamento l’eventuale affossamento che significherà abiurare al primo giuramento Quirinale. Non è solo la Riforma Cartabia, ma la prima speranza del bis Mattarella. Era il 13 febbraio e per non lasciarlo andare dal Quirinale giuravano: “Faremo qualsiasi cosa”. Spergiuri.

 

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  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio