il foglio della moda

Narciso nello specchio virtuale

Sperimentazioni da tenere d'occhio

Giovanni Audiffredi

La dissimulazione digitale genera delle an-icone: immagini che offuscano la nostra coscienza spazio-temporale, come dice Andrea Pinotti, coordinatore di un progetto europeo sugli ambienti immersivi

Ragioniamo di tempo grammaticale e facciamolo al condizionale, immaginandone una rappresentazione sociale: “Come mi starebbe quel vestito se lo comprassi?”. Tempo e immagine hanno un dialogo aperto da quando l’homo sapiens decise di raccontare con la pittura rupestre la realtà del contesto che viveva. La rappresentazione visiva dell’esistente racconta la percezione della stessa e rivela le influenze che ne derivano. Ora, tempo e immagine cercano di parlarsi attraverso nuove opportunità, soprattutto la realtà aumentata, che può essere un nuovo veicolo di convincimento e rendere azione il desiderio di consumare, perché è dall’immagine, nella società dell’immagine, che derivano le nostre pulsioni. Quindi, comprendere l’importanza dell’evoluzione del concetto di iconografia è fondamentale per determinare i riflessi che questa potrebbe avere sui comportamenti del cliente, ma anche del produttore e dei creativi che devono generarla.

 

Riflettendo su questa evoluzione, mi faccio guidare dal filosofo Andrea Pinotti, docente di Estetica all’Università Statale di Milano e coordinatore del progetto European Research Council AN-ICON, dedicato agli ambienti immersivi virtuali: "L’immagine per come la conosciamo dalla pittura, dalla fotografia e dai video, ha delle proprietà che possiamo definire tradizionali. In primis il suo essere incorniciata, ovvero occupare un campo visivo con regole spazio-temporali. Poi di essere rappresentativa di una realtà esistente, la mimesis. Infine, di essere mediata. Nell’attuale scenario, le opportunità della tecnologia di dissimulazione digitale sono invece capaci di un convincimento e di una forza illusoria che in passato non avevano. Una forza tale da generare delle an-icone: immagini che si impegnano a non sembrare immagini, perché offuscano di fronte alla nostra coscienza, il fatto di essere immagini. Se indosso un casco di realtà virtuale, immagini e realtà coincideranno. Sarò immerso nelle immagini che diventano scorniciate. Poi avrò una forte sensazione di presenza, come fruitore e dentro l’ambiente delle immagini. Infine, subirò l’immediatezza ovvero la sensazione di essere in presenza delle cose, che le immagini rappresentano. Tutto questo ha delle ripercussioni nella politica intesa come polis, ovvero lo stare e il vivere in comune”. Per l’industria della moda, che investe bilioni in produzione di contenuti di comunicazione, in sublimazione dell’immagine per ogni genere di piattaforma, dalle campagne pubblicitarie ai video clip di TikTok fino al gaming, è dirimente capire come la percezione dell’immagine possa assumere nuove forme e in quali contesti questo stia già avvenendo.

 

Raggiungere questa consapevolezza significa dettare nuovi tempi: di ideazione, di fabbricazione e di aspirazione al possesso. Lavorare sull’immagine, generando un’idea estetica condivisibile e vendibile, è la vera spinta propulsiva di questo processo.

 

“Oggi, la capacità di percezione dell’essere umano sembra parcheggiata su un passo carraio, senza divieto di sosta, in attesa di capire quale strada percorrere. Ci sono applicazioni tecnologiche che consentono una simulazione esperienziale molto completa, che abbraccia l’intero arco sensoriale, dal tatto all’olfatto fino ovviamente all’udito e a un nuovo modo di osservare le cose, consentendo di visitare luoghi, di emulare un’operazione chirurgica, ma anche più semplicemente di effettuare scelte d’acquisto, introdurre la presenza di oggetti in una stanza, indossare abiti. Questo, con tempi e modi inediti per il senso dell’immagine, stabilendo nuove connessioni”, prosegue Pinotti, che nel suo ultimo volume, Alla soglia dell’immagine (Einaudi), affronta la propensione storica dell’uomo a creare immagini per poi tentare di tuffarvisi dentro, come fossero lo specchio d’acqua di Narciso, alla ricerca di nuove dimensioni. È quello che definisce “impulso an-iconico”. Questo è accaduto con l’illusionismo pittorico, la prospettiva, il trompe l’oeil, le camere pictae rinascimentali, che sono forme ancestrali di realtà a 360 gradi. Ma più contemporaneamente nel cinema si potrebbe tracciare un excursus: dallo stereoscopio alle pellicole in 3D. Adesso, però, la tecnologia di dissimulazione digitale è capace di un convincimento e una forza illusoria che in passato non avevamo. Questo cambia le regole del gioco.

 

Per stabilire la nuova linea temporale di azione della moda e del costume, non solo nell’incertezza sistemica dello status latente di pandemia, è fondamentale capire il contesto, ovvero i luoghi futuri della comunicazione visuale. Anche lo spazio, infatti, può essere virtuale e contenere operatori delle arti visive, che potrebbero trascorrere il tempo della loro azione progettando. Insomma delle factory o meglio degli atelier nei quali immergersi. In collaborazione con la Casa degli Artisti di Milano, che ha 11 atelier fisici di residenza, Pinotti ha esplorato il 12 esimo atelier in forma virtuale: “Con il progetto An-Icon, abbiamo inaugurato due opere: una di Luca Pozzi e l’altra di Emilio Vavarella. In questo atelier diamo vita anche a degli incontri, indossando i visori, che permettono di aggiungere la terza dimensione alla conversazione che, per esempio, facciamo tutti quotidianamente via Zoom. Quindi ci avviciniamo e interagiamo in modo diverso con movimenti e sensazioni d’interscambio più complete”.

 

Immaginiamo allora di partecipare a una sfilata, oppure di visitare lo studio di uno stilista, la presentazione in uno showroom, non girovagando o osservando uno schermo in 2D, ma essendo davvero lì, senza muoverci dal nostro ufficio. È un cambio di paradigma prospettico intrigante.

 

Nei videogiochi, dove la moda ha già investito, anche in termini di tempo creativo per elaborare presenze e collezioni ad hoc, è già avvenuta una mutazione procedurale: dalla lotta per performare e raggiungere punteggi più alti, l’attenzione della generazione Z si è spostata sull’immagine, ovvero sull’aspetto del giocatore e sulle sue abilità seduttive nel contesto sociale del gioco on-line. Un esempio viene da Fortnite, giocato da oltre 30 milioni di persone al giorno, dove le skins, ovvero i costumi e la personificazione corporale, assumono importanza preponderante, sommata alla capacità di saper danzare coreografie sempre più complesse con il proprio personaggio. Ma ora l’attenzione si sposta soprattutto su quei mondi social completamente generati da piattaforme di nuove realtà, di cui la fenice del Metaverso, è la più chiacchierata del momento e più ambita dai coloni della moda.

  

Rapidamente siamo diventati soggetti touch native: altrettanto rapidamente diventeremo immersive native, passando dallo stare costantemente davanti a schermi all’essere dentro gli schermi. Così entrano in campo nuovi soggetti che già affascinano le maison: gli avatar. “La moda è un mezzo per negoziare la nostra identità e architettare la nostra presentazione sociale nei confronti degli altri, ma nelle realtà immersive assume una potenzialità particolare, perché l’avatar non è solo uno strumento attraverso il quale si entra nel virtuale, un mio procuratore per interagire con altri avatar, ma è anche un modo attraverso il quale il mondo digitale si riverbera rispetto la mondo reale. L’avatar può essere una maschera, nel display sociale posso apparire differente. Vogliamo che tutto sia immersivo, ma dobbiamo aspettarci anche un’emersione dell’immagine nei nostri confronti. Se l’empatia è la capacità di assumere una prospettiva sul mondo diversa da quella che è confinata al mio singolo ego, significa che se sono un maschio bianco con un pregiudizio razziale e assumo le sembianze di un avatar nero, posso realmente provare, anche nel mondo virtuale, un’esperienza così profonda da toccare le corde dei miei convincimenti e mutarli”.

  

L’avatar non è un segnaposto, (peraltro non lo è mai stato visto che la sua derivazione dal sanscrito significa “passato attraverso” e facendo un parallelismo, anche Gesù è l’avatar di Dio padre). Dunque, la domanda è: che avatar desidero essere in questo tempo di immagine digitale? E Pinotti risponde: “Posso essere un avatar pret-à-porter, scelto da una libreria di possibilità stereotipate, oppure dare soddisfazione e opportunità a una pluralità di creativi, designer, esperti di moda, che possono confezionare per me molteplici opportunità di studiare più che un abito una vera identità che impone le nostre forme più intime al vestito. Ecco dalla moda possono arrivare dei professionisti di quello che gli inglesi chiamano enbodiment, capaci di ripensare la produttività e creatività di una nuova filiera dove il tessuto non è toccato con mano, ma con il guanto digitale. In un tempo che non è né condizionale né futuro, ma già presente”.

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