Tutte le ragioni per votare Draghi presidente della Repubblica

Le idee sul confronto politico, la scelta di campo necessaria per l’Italia e il senso di una sfida oltre il gioco dei nomi. Endorsement in libertà, con vista sui prossimi sette anni

Ci si sente un po’ mosche cocchiere a caldeggiare un’elezione necessaria, determinata dalle cose, conveniente per tutti, come quella di Mario Draghi al Quirinale. C’è un criterio di economicità delle scelte e della distribuzione del potere a portare, secondo logica politica, al voto di gran parte dei 1.009 per l’attuale presidente del Consiglio. Si copre, introiettandola, inserendola nel sistema politico democratico, la funzione che sempre i partiti hanno vissuto con sofferenza e cioè quella di chi si è sobbarcato delle crisi irrisolvibili e dei famosi rapporti con il mondo finanziario, con i mercati, con l’insieme di compatibilità economiche in cui siamo necessariamente immersi, cui va aggiunta anche la tenuta di rapporti internazionali basati sull’atlantismo e sulla capacità di stare, in modo attivo ma senza fare strappi estemporanei, nell’ambito europeo mantenendo un solido legame strategico con gli Stati Uniti. In altre parole, è meglio un Draghi dentro all’assetto politico nazionale che un Draghi fuori di esso. Perché la sua guida del governo non è stata frutto di un incarico, come dire, interinale. Non ha agito da tecnico che viene a sistemare le cose per poi lasciarne la gestione ad altri. Ma ha governato esattamente rappresentando una storia personale e pubblica che è una storia politica e che non è una vicenda passeggera ma è un bel pezzo della nostra storia nazionale. Lasciate a qualche scioccherello difensore di criteri letterali, di principi applicati in modo tanto pedante da perdere significato, l’applicazione dello stigma del banchiere, dell’uomo di finanza, estraneo ai meccanismi di legittimità democratica. I partiti facciano uno sforzo di responsabilità e di consapevolezza non solo votando Draghi ma riconoscendone, e quindi un po’ facendola loro, la vicenda politica, fatta di difesa dei capisaldi, economici e non solo, su cui si basa la nostra cara, amatissima, società democratica. E, dopo averlo eletto, magari siano, i partiti, in grado di trasformare l’operazione Draghi in una spinta verso la responsabilizzazione anche nella capacità di esprimere un governo politico.

  
Giuseppe De Filippi
giornalista

 

Una prima ragione dell’elezione di Mario Draghi al Quirinale è che sarebbe un segnale di cambiamento nella politica italiana, dato che gli altri nomi che circolano sono esponenti di una classe dirigente datata, che negli ultimi decenni non ha dato grandissima prova di sé. In secondo luogo, Draghi ha dimostrato anche in quest’ultimo anno ottime capacità sia come politico sia come mediatore, ha quindi anche le competenze e le abilità per svolgere questo ruolo. 

 

 In terzo ruolo, nella sua storia personale da presidente della Bce ha dimostrato di saper difendere i trattati a allo stesso tempo di essere un innovatore quando era necessario, che sono due qualità importanti per un ruolo di garanzia come quello del presidente della Repubblica. Infine è l’italiano che gode di maggiore credibilità a livello internazionale, in una fase in cui usciremo dalla crisi pandemica con un debito pubblico altissimo, ci saranno da riscrivere le regole del Patto di stabilità e sarà quindi una fase molto complicata.

 
Molti obiettano che, proprio per queste ultime ragioni, è necessario che Draghi resti a Palazzo Chigi. Mi pare però una forma di ipocrisia per non farlo arrivare al Quirinale. Perché è indubbio che la spinta propulsiva di questo governo si sia esaurita, non c’è più il vigore riformatore che c’era all’inizio. La forza politica di Draghi si è indebolita e l’abbiamo visto con la legge di Bilancio, dove è andato in minoranza e sono passate misure di spesa che era meglio evitare. Se uscisse sconfitto da questa elezione – perché alla fine quello sarebbe il messaggio politico – ne uscirebbe ulteriormente indebolito e, con i partiti che sentono già l’odore delle elezioni, avremmo un governo Draghi depotenziato e, in ogni caso, con un orizzonte al massimo di un anno. Avere invece Draghi per sette anni al Quirinale sarebbe molto rilevante per l’immagine esterna del paese e potrebbe essere anche una garanzia per un miglioramento del sistema politico portando il confronto su un piano più pragmatico. Sarebbe il ritorno della dialettica politica, che è il sale della democrazia, ma meno ideologizzata rispetto allo scontro muscolare e inconcludente degli ultimi anni.
 

Tito Boeri
economista (testo raccolto)

 

Le strategie e le tattiche che i leader politici stanno disegnando per la partita del Quirinale hanno alte probabilità di schiantarsi contro la realtà di partiti fatti di gruppi e correnti che perseguono interessi diversi, se non contrapposti, che i capi non sono in grado di controllare. L’interesse nazionale, che dovrebbe essere la bussola per la scelta del nuovo presidente della Repubblica e del conseguente assetto di governo, viene spesso evocato senza però mai spiegare in che cosa davvero consista. Ebbene, per l’Italia che ha un debito pubblico pari al 154,8 per cento del pil e un tasso di crescita storicamente più basso della media europea, l’interesse primario è la stabilità finanziaria, la fiducia dei mercati e l’attuazione del Pnrr, una scommessa ad alto rischio che però è l’unica via per costruire una prospettiva di crescita per le nuove generazioni.  Sono questi gli elementi che Mario Draghi ha garantito nell’ultimo anno e che hanno determinato un nuovo slancio economico, nonostante la pandemia: non possiamo certo rinunciarci ora che siamo solo all’inizio del lungo e accidentato percorso del Pnrr. Lo stato dei partiti fa sì che qualsiasi soluzione che non sia l’elezione di Draghi al Quirinale, aldilà della indiscutibile autorevolezza di altri candidati, determinerebbe scontri e lacerazioni che ricadrebbero sul governo, impedendo quindi la permanenza dell’attuale premier a Palazzo Chigi. Dunque, solo Draghi presidente della Repubblica farebbe dell’Italia, per sette anni, un paese credibile sul piano finanziario, politico e istituzionale che, insieme a Francia e Germania, sarebbe protagonista della costruzione di un’Europa rinnovata nei valori e nelle politiche. Non possiamo permetterci il rischio di non avere Draghi né al governo né al Quirinale. Nessuno, fuori dai confini nazionali, lo capirebbe. E chi invoca il “ritorno della politica”, umiliata dal tecnocrate Draghi (ma in origine non lo era anche Ciampi?), dovrebbe chiedersi se la fiducia che oggi i cittadini esprimono nei confronti di Draghi riveli non uno spirito di antipolitica ma piuttosto l’aspirazione, da lungo tempo frustrata, a una buona politica.

  
Linda Lanzillotta
ex ministro

 

Poiché i bambini sono il futuro del nostro paese, forse il miglior suggerimento che noi cittadini possiamo dare ai “grandi elettori” chiamati a scegliere il presidente della Repubblica è di esaminare la questione attraverso occhi, per l’appunto, infantili, ancora colmi di speranza e di fiducia. Di scegliere, quindi, non secondo miopi tattiche di partito o presunti obblighi di “disciplina”, basati sui possibili vantaggi che possono derivare a una forza politica piuttosto che a un’altra dalla continuazione o, al contrario, dalla caduta del governo e quindi da elezioni immediate. E, ancor meno, in base a ipotetici vantaggi personali, come la promessa di un seggio nel nuovo Parlamento (dove peraltro i seggi saranno inferiori di un terzo agli attuali); o per compiacere le ambizioni personali di chi – guarda un po’ – ritiene, apertamente ma del tutto impropriamente, di dover ricevere il più alto riconoscimento pubblico per i tanti “meriti” guadagnati sul campo.

 
Agli occhi di un bambino tutte queste considerazioni appaiono incomprensibili, e lo sono davvero. Il suo interesse, e quello dei giovani in generale, è che il Presidente unisca, anziché dividere; includa anziché escludere; rispetti e non disprezzi, ami e non odi. A loro interessa un arbitro affidabile, come nel calcio, nel tennis, nel basket, che sia in grado di far rispettare le regole e gli equilibri del “gioco sociale” – nelle istituzioni, nel mercato, tra le imprese e tra imprese e lavoratori. Che garantisca che queste regole vengano stabilite con il massimo consenso prima che il gioco abbia inizio e dopo aver livellato il “terreno” in modo da evitare che esso sia riservato ai più fortunati. Un arbitro che non usi la tracotanza per far valere le sue ragioni, né la sua ricchezza per umiliare una parte dei giocatori; che affondi le sue scelte nel terreno della conoscenza anziché del potere; che non dica bugie e neppure faccia promesse impossibili; che non coltivi i privilegi ma la solidarietà; che sia favorevole all’iniziativa e alla responsabilità dei singoli ma abbia grande sensibilità nei confronti di  chi è rimasto o rischia di restare indietro; che valorizzi non solo il dialogo ma anche l’insegnamento e il “buon esempio”. In altre parole, che abbia tutta l’autorevolezza di un “maestro” che sa parlare lingue diverse per dialogare con tutti, come il presidente Mattarella. 

 
Raccontavo tutte queste belle qualità al mio nipotino di 9 anni, quando lui, un po’ impaziente, mi ha chiesto: “Sì, nonna, va bene, ma tu un nome ce l’hai?”. Ne ho due, ho risposto, perché è sempre meglio avere una riserva e te li dirò in ordine rigorosamente alfabetico, come si fa a scuola: Marta Cartabia e Mario Draghi. 

 
Elsa Fornero
economista, ex ministro
 

Giulio Sapelli e io abbiamo scritto a ottobre “Draghi o il caos” sperando che i partiti, pur allo sbando, facessero una scelta di sistema scegliendo un presidente della Repubblica che chiudesse la Seconda Repubblica, aperta dalla magistratura nel 1992 e commissariata da Giorgio Napolitano nel 2011. Oggi tocca auspicare che il “caos” porti allo stesso esito. Comunque il “dopo” non sarà semplice. Il mio vecchio amico Giuliano Ferrara, recensendo il nostro libro, sostiene che una personalità espressione del mondo Goldman Sachs non si caricherà mai dell’impegno di rivitalizzare la politica. C’è saggezza in questa osservazione. Draghi però è protagonista e interlocutore di élite finanziarie che s’interrogano se l’imbalsamazione della politica prevalsa con Angela Merkel e perfezionata da Emmanuel Macron, possa stabilizzare l’attuale aggrovigliato contesto internazionale. In fin dei conti il governo Scholz va nella direzione del ritorno della politica. Così la miracolosa apparizione di Valérie Pécresse in Francia e di Isabella Díaz Ayuso a Madrid. Persino gli unico-pensatori del New York Times si domandano come senza politica, tra i repubblicani ma anche tra i democratici, si eviterà che Donald Trump prevalga nel 2024.

 
Forse, dunque, i processi in corso sono più complicati di quello che prevede un’ottimistica fiducia nelle tecnocrazie. Che la scena italiana sia occupata da un ammasso di macerie è evidente: ma per rimuoverle la via è solo quella di ridare vitalità alla politica. E al fondo credo che Draghi, non solo economista di valore ed eccelso civil servant ma anche arricchito da proficue frequentazioni con i Cirino Pomicino e i Letta (zio) e da un’esperienza di governo nel 2021 con tutti i nodi irrisolti quando serviva “la politica”, ascolti sia le nuove avvertenze delle élite sia i movimenti della società italiana.

 
Perciò spero che il caos in corso ci porti Draghi e presto (a giugno o a ottobre) anche un nuovo Parlamento. Serve una fase di transizione? Si circoscrivano in modo bipartisan le emergenze (pandemie e investimenti del Pnrr). C’è bisogno ancora di un governo tecnico? Che duri pochi mesi come quello di Lucas Papademos che salvò la democrazia greca, non un anno e mezzo come quello di Mario Monti che alla fine ci regalò i Cinque stelle al 32 per cento.

 
Lodovico Festa
giornalista
 

La preoccupazione che spedire Mario Draghi al Quirinale interrompa l’azione del governo in un momento molto critico è comprensibile; ma è ampiamente controbilanciata dalla certezza di avere così per l’intero settennio un capo dello stato autorevolissimo nel paese, a Bruxelles e in tutto il mondo. E convintissimo della necessità di evitare ogni rallentamento sul Pnrr: il quale dunque si guarderà bene dallo sciogliere il Parlamento e saprà indicare per la guida del governo una persona nella quale la maggioranza che lo avrà eletto possa riconoscersi. Altro che mortificazione della politica: una scelta che più politica non si può.

 
A questa prospettiva si obietta che darebbe luogo a una forma di semi-presidenzialismo, dunque a uno strappo costituzionale. Ma proprio la Costituzione vigente si caratterizza per la possibilità di un ampliamento “a fisarmonica” del ruolo del capo dello stato, quando il normale meccanismo parlamentare si inceppi, oppure nelle situazioni – come l’attuale – nelle quali l’interesse superiore del paese imponga una tregua fra gli schieramenti. Così, per esempio, negli anni a cavallo tra la XVI e la XVII legislatura abbiamo visto Giorgio Napolitano svolgere di fatto – con discrezione e in armonia con un’ampia maggioranza parlamentare – un ruolo di sostegno a Mario Monti nella guida politica del governo di unità nazionale; e un ruolo incisivo di garanzia del rispetto degli obblighi internazionali del paese ha svolto Sergio Mattarella nei primi due anni della legislatura attuale.

 
Per altro verso, l’alternativa qual è? La prospettiva assai incerta di riuscire a mantenere Draghi a Palazzo Chigi ancora per un anno. Poi un grande salto nel buio. Molto meglio, dunque, se la settimana prossima il Parlamento, collocandolo invece sul colle più alto, gli conferisce implicitamente anche il compito di garantire la continuità dell’azione dell’esecutivo, soprattutto per conservare all’Italia il ruolo che si è conquistata nel corso dell’ultimo anno, di paese-guida nella costruzione della nuova Unione europea.

 
Pietro Ichino
giuslavorista

Quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare, avvertono gli esperti. E perciò è arrivato il momento di puntare apertamente su Mario Draghi al Quirinale. Non solo per ridimensionare, sgonfiare e, diciamolo pure senza giri di parole, per sabotare l’allegra candidatura di Silvio Berlusconi, il quale certo ha tutte le qualità del mondo, è un grande imprenditore, un uomo affabile, simpatico, generoso, un tipo fortunato e di successo, ma  resta a ben vedere sprovvisto di quella qualità essenziale al capo dello Stato, che è la capacità di rappresentare la nazione, e l’unità di tutta la nazione. 

 
Perché Draghi sì e lui no? Si chiederanno i paladini più ostinati di Silvio & Co.  Perché Draghi non è il capo di un partito, né quello di una coalizione di partiti in campagna elettorale permanente. Perché è una figura istituzionale con un curriculum di altissimo profilo, e negli ultimi decenni ha saputo rappresentare l’Italia nei vertici internazionali e col massimo dell’efficacia, sin da quando era direttore generale al ministero del Tesoro, poi come governatore della Banca d’Italia, quindi come presidente della Banca centrale europea. Perché è romano e però cosmopolita. Perché vive ai Parioli senza essere un pariolino. Perché ha studiato dai gesuiti senza diventare un devoto, ma imparando sin da giovane l’arte sublime della coincidentia oppositorum, come tensione di opposti nell’unità, utilissima a conciliare contrasti e divisioni superandoli e  annullandoli, come testimonia peraltro la sua ultima prova a Palazzo Chigi. Perché è uno dei pochi politici italiani in grado non solo di parlare inglese come un madrelingua, ma di pensare in inglese, dando espressione concisa a concetti efficaci, per trasformarli in atti, fatti, misure concrete, senza avvolgerci nella nube tossica dell’ipotesi dell’irrealtà, del rinvio, della dilazione continua e dell’indecisione come metodo di governo. Infine, perché sarebbe l’unico possibile garante, o quantomeno il più attendibile e autorevole, per mantenere nel tempo la rotta del Pnrr,  e  condurlo in porto nei termini prefissati, al riparo dal rischio più che prevedibile di burrasche, tempeste e ammutinamenti di sorta.

 
Marina Valensise
giornalista

It’s the Pnrr, stupid”: questo il senso, per dirla come Bill Clinton, di quanto scritto a novembre da chi scrive sullo stesso tema. Sette anni di Mario Draghi al Quirinale sarebbero la migliore garanzia di stabilità del nostro paese che deve affrontare la sfida del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Stabilità garantita sia dal prestigio internazionale di Mario Draghi sia dalla sua conoscenza della macchina dello stato che dovrà far marciare nel concreto il Pnrr perché, si argomentava, se deragliasse il Pnrr la stessa stabilità del sistema Italia sarebbe a rischio. A distanza di qualche mese non si vedono motivi per cambiare idea, anzi c’è un motivo politico che rafforza la necessità di Mario Draghi al Quirinale. Leggendo i giornali appare sempre più evidente che salvo un “Mattarella bis” – votato, in caso di emergenza, quindi da tutti in Parlamento – nessun presidente della Repubblica riuscirebbe a tenere insieme un governo di larghe intese come è il governo Draghi. Non è difficile prevedere che il Parlamento entrerebbe quindi immediatamente in fibrillazione nel tentativo (per chi scrive vano e dannoso) di formare un governo “a qualunque costo” pur di non andare alle elezioni. Insomma Draghi non sarebbe al Quirinale, ma nemmeno a Chigi. Che magari è quello che tanti segretamente sognano. 
Andrea Tavecchio
commercialista

In questi giorni, si discute molto delle persone che potrebbero succedere a Sergio Mattarella, mentre di rado sono considerate le condizioni politiche e sociali indispensabili per adempiere efficacemente la missione fondamentale che la Costituzione attribuisce al presidente, cioè “rappresentare l’unità nazionale”. In quei rari casi, a volte si fa riferimento all’esigenza di fronteggiare la pandemia, altre volte a quella di rassicurare i partner europei sull’attuazione del Pnrr. Ma anche queste indicazioni hanno un limitato valore, perché gli interessi nazionali vanno riguardati non solo nell’attuale congiuntura, ma nel ben più ampio arco di tempo – sette anni – del mandato presidenziale ed è riduttivo ricondurre la prospettiva europea alla gestione di un piano, pur rilevante. 

 
Il significato dell’unità nazionale va, dunque, ricercato altrove. Tre sono gli snodi fondamentali. Si tratta, prima di tutto, di costruire le condizioni necessarie per il benessere futuro, come fece Luigi Einaudi, che si adoperò affinché gli italiani sopportassero le difficilissime circostanze del dopoguerra e fossero poste le basi del progresso civile ed economico, per tutti. I risultati raggiunti, negli anni successivi, non furono un dono della provvidenza, un “miracolo”. Furono l’esito di un’azione collettiva, cui concorsero varie forze politiche e sociali. In secondo luogo, l’unità della nazione va conseguita rafforzando i legami tra le varie generazioni. Assumono quindi un’importanza cruciale i buoni investimenti: nelle infrastrutture materiali, nella protezione dell’ambiente, nell’istruzione, che è essenziale per fornire opportunità ai giovani che ne sono privi. Solo a queste condizioni, ben illustrate nel discorso di Mario Draghi a Rimini, la creazione di nuovo debito è equa e sostenibile. Infine, sempre più spesso l’interesse nazionale può essere difeso, valorizzato soltanto nella cornice europea. Carlo Azeglio Ciampi ne ebbe piena consapevolezza: da ministro, nel dare avvio all’euro; da presidente, nel sottolineare che la strada giusta consiste nel far convivere integrazione e diversità nazionali. Proiettare l’unità politica sperimentata negli ultimi dieci mesi nell’elezione del presidente può consolidare le speranze di miglioramento all’interno del paese e la fiducia al suo esterno. 

 
Giacinto della Cananea

professore di Diritto amministrativo

Draghi al Quirinale. E perché no? Ne ha le qualità. Competenza, rispetto per la Costituzione, sobrietà. In tanti apprezzerebbero questa scelta. Anche l’Europa probabilmente. E sappiamo tutti quanto questo sia importante. 

 
Non è all’attuale presidente del Consiglio che sono contraria. Ma non mi piacciono i suoi sostenitori, non mi piace quello che questo incarico significa per chi lo vorrebbe sul Colle, per il valore simbolico che assume nella politica italiana, per il senso comune che soddisfa, per ciò che sancisce nella testa ormai frastornata di tanti. 

 
Sì a Draghi ma non a quello per cui viene invocato e verso cui – lo confesso – provo un grande fastidio. No ai “draghisti”. Provo fastidio per il concetto dell’“one man show” che nella politica italiana si ripete ormai troppo spesso. E che ormai alligna nella società.  Un uomo – ovviamente sempre e solo un uomo – può salvare la società, l’economia, la patria. Berlusconi, Renzi, Monti sono solo gli ultimi esempi di salvatori che poi non hanno salvato. Fosse anche l’uomo (e, di nuovo, sottolineo due volte la parola) migliore possibile non farà alcun miracolo anzi illuderà e deluderà. E’ inevitabile. Lo abbiamo già visto. 
Provo fastidio per questa propensione alla delega, che mette da parte istituzioni e movimenti. Come se tutto fosse già detto o compreso in una persona. Come se non valesse più la pena di cimentarsi in scelte rischiose. 
Provo fastidio per la diseducazione alle scelte complesse e finanche divisive che l’ipotesi di Draghi rafforza, malgrado il valore dell’uomo (sottolineo ancora l’ultima parola). In un paese che ha perso ogni fiducia nei gruppi dirigenti, in cui i partiti hanno scarsa credibilità, il passaggio dell’attuale presidente del Consiglio al Quirinale è una denuncia della povertà delle idee e dell’offerta, della mancanza di immaginazione e di audacia. Anche di questo è fatta la politica. 

 
L’opposizione alla candidatura di Berlusconi dovrebbe derivare da una cultura politica diversa, che rifiuti quel che il Cavaliere ha rappresentato nella storia italiana.  Fra cui appunto la sindrome del padrone, dell’eroe, del capo senza di cui nulla è possibile. Non ci si può limitare, come dice il Pd, a sostenere che è divisiva. Draghi non è, per cultura ed educazione, un capo o un padrone. Ma ho il sospetto che molti di coloro che lo sostengono (non tutti ovviamente) a questo aspirino. O meglio di questo si accontentino. Chissà! Se si facesse il nome di una donna forse saremmo fuori da questo rischio.

 
Ritanna Armeni
giornalista
 

Abbiamo sempre ritenuto la figura del presidente della Repubblica come quasi “onoraria”: un riconoscimento di fine carriera per vecchi notabili della Prima Repubblica. Salvo poi capire che il ruolo contiene prerogative cruciali per la politica. Viviamo peraltro una contingenza molto particolare: il decadimento costante del livello politico e delle battaglie conseguenti ci aveva intorpidito e condannato a una narrazione demagogica e muscolare della realtà del paese.
L’avvento di Mario Draghi alla presidenza del Consiglio dei ministri, avvenuta quasi contemporaneamente alla fine della lunga parabola politica di Angela Merkel e alle traversie politiche o elettorali dei tradizionali protagonisti della scena europea, ci ha catapultato in un universo fatto di autorevolezza e credibilità che non ricordavamo da tempo. Il tutto in un momento in cui si decide il futuro dell’economia del Continente attraverso un piano di sviluppo e investimenti come non si ricordava dalla fine della guerra mondiale.

 
Per chi, come me, ritiene di vivere una fase storica ricca di straordinarie possibilità, è orgoglioso dei riconoscimenti di cui il proprio paese gode e ritiene che Mario Draghi sia uno degli attori che hanno reso possibile la svolta a cui assistiamo, la domanda cruciale è: meglio Draghi al Quirinale o a Palazzo Chigi? 
In prima battuta ho ritenuto che Chigi fosse il teatro in cui un politico raffinato come Draghi dovesse continuare a svolgere il proprio ruolo, specie nell’anno cruciale in cui si dovranno avviare le riforme necessarie a rendere efficaci le risorse del Pnrr. Oggi invece penso che sia la sua elezione al Quirinale il giusto completamento del percorso che stiamo vivendo. Da un lato infatti la prossima legislatura molto difficilmente potrebbe riproporre un governo come quello attuale per cui perderemmo le competenze dell’ex numero uno di Bce in via probabilmente definitiva. Dall’altro la sua presenza come capo dello stato per sette anni potrebbe consentire all’Italia di avere una figura di garanzia e ampio riconoscimento internazionale determinante.

 
Nei prossimi anni ci giochiamo il futuro di un paese che è passato in un attimo dal potenziale fallimento (ricordiamoci che eravamo a un downgrade dal default) a essere uno degli stati guida dell’Unione. Se vogliamo giocare la partita con speranze di vittoria dobbiamo schierare i nostri giocatori migliori: Draghi è uno di loro!
 

Filippo Delle Piane
imprenditore

 

Credibilità personale, autorevolezza internazionale ed equi-lontananza dai vari partiti fanno emergere per distacco la figura di Mario Draghi come candidato ideale alla Presidenza della Repubblica italiana, mentre la non ancora acquisita disinvoltura con regole e prassi istituzionali non pare francamente rappresentare un argomento adeguato per preferire al suo profilo quello di un (ex) presidente della Camera, di un (attuale) presidente del Senato o di un (recentissimo) presidente del Consiglio di Stato. 

 
Allo stato non è invece ancora emersa una soluzione rassicurante per il prosieguo della legislatura ed è più che lecito nutrire qualche preoccupazione al riguardo. Né potrebbe essere diversamente, posto che nessun governo potrà mai comporsi, e men che meno ottenere la fiducia, se ce n’è un altro ancora pienamente in carica. Ad alcune preoccupazioni motivate si accompagna, in questi casi, anche l’inevitabile paura dell’ignoto. Ma posto che l’utilizzo della palla di vetro non potrà garantire alcuna conclusione affidabile, la difficile scelta fra il Draghi premier e il Draghi capo dello stato sembra ragionevolmente evocare il paradosso dell’uovo e della gallina ovvero l’oggettiva rilevanza di un settennato come strumento di misurazione di una maggiore capacità di influenza politica. 
A fronte del dato temporale e della volontà manifestata dall’interessato appare invece assai più aleatoria ogni possibile speculazione politico-costituzionale sulle maggiori o minori prerogative dell’uno e dell’altro Draghi: politica e istituzioni vivono principalmente nella prassi e ogni opinione sul punto potrà risultare più o meno convincente a seconda dei successivi sviluppi. 

 
Una domanda più concreta dovrebbe semmai riguardare il presente: cosa ha rappresentato per l’Italia l’improvviso coinvolgimento politico di Mario Draghi? Certamente non un ennesimo governo tecnico, come implicitamente suggerito da alcuni suoi detrattori, piuttosto un momento di maggiore coesione nazionale, una discussione aperta e accesa sulle questioni di merito e il costante rifiuto di qualsiasi pregiudiziale ideologica.

 
 Ma tutto questo, di per sé solo, sarebbe in realtà ben poca cosa: l’avvento di Mario Draghi ha determinato innanzitutto una diversa fiducia del paese nella sua capacità di poter incidere nelle dinamiche europee, azzerando in un colpo solo sia il dannoso “conservatorismo” della sinistra italiana, sia le deliranti prospettive anti-sistema che serpeggiano in una parte dei suoi oppositori. Eleggerlo come presidente della Repubblica significherebbe semplicemente rafforzare le istituzioni democratiche agli occhi dei cittadini italiani, fornendo ai futuri governi una autorevolezza finora non certo scontata in Europa e nel mondo: al resto penseremo il giorno dopo.
Francesco Compagna
avvocato
 

Profilo, curriculum, storia recente (il 2011…), contesto locale e globale, ricadute politiche e infine anagrafe. Per non tacere della continuità con l’èra Mattarella. Sono più o meno questi, per titoli, gli argomenti di questo perché sì, perché sarebbe meglio Mario Draghi al Quirinale. Una maggioranza ampia, amplissima lo ha chiamato al governo con una scelta politica e un orizzonte implicito. 

 
Il grande trasloco non sarebbe un trionfo dell’antipolitica o un commissariamento di partiti che si preparano a votare al massimo fra un anno. E che semmai si sono indeboliti da sé, tagliando senza contrappesi il numero dei loro scranni in parlamento. Né si tratterebbe di un semipresidenzialismo di fatto perché i poteri del capo dello stato in Italia, salvo riforme non alle viste, sono quelli fissati dalla Costituzione: si restringono e si allargano a seconda di rapporti di forza politici. Come è sempre stato. Anche con gli ultimi forti presidenti, Sergio Mattarella e Giorgio Napolitano, che hanno vissuto fasi diverse nel bilanciamento dei poteri. L’unica novità, quella che sta ingarbugliando la partita, è il passaggio diretto da Palazzo Chigi alla Presidenza della Repubblica. Ingarbuglia, non osta, poiché il passaggio di per sé non equivale automaticamente a un diverso e maggiore potere dell’eventuale ex premier diventato neopresidente. Funziona poco anche l’argomento del Pnrr da attuare, dell’anno decisivo e del patto di stabilità da negoziare, il brand Draghi più utile a Palazzo Chigi. La garanzia di continuità tecnica si concentrerebbe infatti sulle spalle del ministro dell’Economia che evidentemente lui no, non potrebbe traslocare a Palazzo Chigi. La garanzia di continuità politica per i mesi che restano sarebbe affidata ai leader della maggioranza. Se Draghi è un brand, funziona bene anche proiettato sul paese dal Colle. 

  
Mi accorgo che le obiezioni al perché no tendono a prendere la mano. D’altra parte nelle grandi manovre delle ultime settimane i perché no sono stati spesso travestiti da perché sì, perché Draghi sì, ma a Palazzo Chigi. Pochi nella maggioranza, forse nessuno, hanno esplicitato argomenti forti contro la persona, altrimenti avrebbero dovuto iscriversi alle liste delle opposizioni. E arriviamo così all’ultimo realistico perché sì: perché se Draghi non trasloca, il sì diventa un no anche al governo Draghi, già indebolito nelle ultime settimane. Con rischi da valutare bene.           
 

Alessandra Sardoni
giornalista

Draghi è come il nero, dove lo metti sta. Lo vuoi al Quirinale? Perfetto, è della sua taglia, non devi nemmeno fargli l’orlo. Lo preferisci a Palazzo Chigi? Già ci sta, non lo sposti, e te lo godi tutto. Vuoi provarlo a Sanremo? Stava bene alla Bce, non vedo perché non all’Ariston, oltretutto il giro di soldi è lo stesso. Proviamo però a immaginarcelo al Colle: direi che in cornice negli uffici pubblici come prefetture e commissariati ci starebbe benissimo; alla parata del 2 giugno farebbe la sua porca figura, lui che arruolando Figliuolo nella campagna vaccinale ha riportato l’esercito italiano a una vittoria sul campo – non succedeva dal 1918; in generale, sul cerimoniale è il primo della classe.  L’unico punto debole del Draghi presidente della Repubblica sarebbe il discorso di fine anno. Come sappiamo, ogni presidente ha un anno per prepararlo – anche se di procrastinazione in procrastinazione finisce che lo scrivono tutti di getto dopo Natale, a Santo Stefano. Ma Draghi è uomo di poche parole: magari indimenticabili, come la celebre “Suonala ancora, Sam”… ah no scusate, “Whatever it takes”, ma insomma l’effetto è quello. Ma a parte poche battute a effetto, Draghi parla poco; non che si esprima a gesti (è composto e silenzioso persino nei movimenti del corpo, né è un mimo), ma come disse di lui Sergio Leone – mi pare – Mario Draghi ha solo due espressioni: con portafoglio o senza. Ecco, bisogna trovare qualcuno che gli scriva i discorsi: in linea con il suo personaggio, ma adatti al pubblico di Rai1. Qualcosa in stile Raimondo Vianello, per intenderci. Risolto questo piccolo ma sostanziale aspetto, Draghi è pronto per essere trasferito con un Bartolini da Chigi al Quirinale.
Saverio Raimondo
comico

L’elezione di Draghi al Quirinale offrirebbe, per i prossimi sette anni, un presidente della Repubblica con un’indiscutibile statura internazionale. E non rappresenterebbe nessuna abdicazione da parte della politica. Quello di cui abbiamo bisogno è proprio questa figura: che abbia una funzione di garanzia non solo all’interno. Ma che svolga anche una funzione di rappresentanza a livello internazionale. In una fase che sarà per tanti motivi fondamentale, di transizione dell’Europa e con essa dell’Italia nel mondo. E’ evidente che l’elezione di Draghi significa trovare allo stesso tempo una soluzione politicamente forte per quanto riguarda il prosieguo dell’attività di governo. L’elezione di Draghi porterebbe i vantaggi che ci siamo detti. Ma allo stesso tempo dovrebbe essere accompagnata da un impegno forte dei partiti per quanto riguarda la composizione e gli impegni del nuovo esecutivo.

 

Quest’anno sarà fondamentale per l’esecuzione del Pnrr. Quello che abbiamo fatto è stato importante ma è poco rispetto a quello che dobbiamo ancora fare a partire da quest’anno. C’è chi dice che sarebbe un peccato relegare Draghi in una posizione notarile? Ma la presidenza come figura notarile poteva riferirsi alla Prima Repubblica, negli ultimi quindici anni è stata tutt’altro. A livello internazionale sia Napolitano che Mattarella e anche Ciampi all’epoca dei governi Berlusconi hanno svolto una funzione attiva importante. Il presidente dispone di poteri cosiddetti a fisarmonica: che si allargano e si restringono in base ai contesti. Questo allargamento mi sembra nei fatti e difficilmente vedremo un ritorno a presidenti notai.

  

Il ruolo dell’Italia deve continuare nel solco responsabile che è emerso in questa fase. La figura di Draghi continuerebbe a rappresentare un valore aggiunto. Però immaginare che tutto dipenda da un uomo è sbagliato. Come paese avremo o meno un ruolo importante soprattutto per quello che faremo o non faremo, al di là delle personalità di spicco. La sola elezione di Draghi non basterebbe certo ma dovrebbe essere accompagnata da un impegno forte della politica. Unica possibilità è che Draghi sia eletto a larga maggioranza. Se faremo questo il nostro ruolo a livello europeo potrebbe consolidarsi. Potrebbe essere un primo passo importante.

 
Paolo Guerrieri
economista

Caro direttore, era il 26 di agosto quando pubblicasti il primo girotondo fogliante per Draghi presidente.  Allora io sostenni la tesi di chi sperava che immaginare un Unico Salvatore della Patria buono per tutte le stagioni fosse quanto meno demoralizzante non per lui, il Salvatore ovviamente, ma per noi restanti sessanta milioni condannati in sua assenza a un futuro di incapace mediocrità. Senza contare ovviamente la complicazione di trovare un altrettanto degno successore a Chigi, foss’anche diretta emanazione dell’Unico Salvatore nel frattempo divenuto Presidente. Complicazione risolvibile con piglio decisionista dal Nostro ma come si può ben immaginare non proprio la massima espressione di volontà democratica dei cittadini, benché almeno formalmente ineccepibile. Insomma, per me Draghi doveva continuare il lavoro di presidente del Consiglio fino al 2023 e un attimo prima di sciogliere le Camere per andare alle elezioni la parte politica più sveglia, generosa, davvero attenta al bene comune avrebbe dovuto candidarlo. Per assicurarsi così una continuità di lavoro e ripristinare un minimo di senso all’atto di mettere schede nell’urna. 

  
Cosi scrivevo confidando in quei cinque mesi di tempo che ci separavano dall’addio di Mattarella nella capacità di trovare un accordo, definire un profilo, concretizzarlo in un nome. Meglio se donna sì, non una a caso ovviamente, ma donna perché almeno un paio in grado di svolgere questo compito ci sarebbero e perché ristabilire, o almeno provare a farlo, un certo qual equilibrio di genere non sarebbe una tragedia. 

 
Ma oggi? Cos’è rimasto oggi di tutta quella ragionevole speranza? Ben poco purtroppo. Lo spettacolo sempre più imbarazzante delle trattative quirinalizie, i balbettii vuoti o al contrario i proclami stentorei utili solo a mettere veti sembrano aver portato a nulla. E allora si mandi Draghi al Quirinale, almeno vigilerà per noi e le cancellerie estere saranno felici e così pure il Financial Times. L’Europa ci darà i soldi e per i debiti si vedrà, tanto garantisce lui. Un nuovo governo si farà ma essendo Lui l’Unico Salvatore nascerà inevitabilmente più malato e deboluccio pronto a cadere magari già a settembre com’ebbe a dire Renzi mesi fa alla Leopolda. 

  
Io per parte mia farò comunque gli auguri al Presidente: sette anni al Colle con questa classe politica richiedono uno sforzo sovrumano. Tenerlo presente sempre. 

 
Flavia Fratello
giornalista

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