Di Letta o di governo? La trasformazione del segretario del Pd

Francesco Cundari

Istituzionale ma anche radicale, riformista ma anche grillino. Che cosa è successo al leader che nel 2014 lasciò la guida del governo e poco dopo l’Italia e la politica ed è tornato poi acclamato leader del partito democratico. La nuova giovinezza movimentista di un ex primo della classe

Da quando Enrico Letta è diventato segretario del Partito democratico, il 14 marzo 2021, a largo del Nazareno non c’è dirigente che non s’interroghi sulla sua trasformazione, che non ne parli continuamente con sodali e rivali interni, che non tenti di misurarne la profondità e di calcolarne gli effetti. Mancando regolarmente entrambi gli obiettivi. Su un punto, però, concordano tutti: l’uomo politico che nel 2014 lascia la guida del governo, e di lì a breve anche la politica, e infine il paese, per trasferirsi in Francia, è molto diverso da quello che si ritrovano davanti sette anni dopo, all’Assemblea nazionale, convocata appositamente per eleggerlo al vertice del partito.

  
In quell’occasione, a detta di tutti, Letta dimostra una certa abilità, guadagnandosi complimenti e attestati di stima tra i commentatori dei più diversi orientamenti, praticamente unanimi. Come vicino all’unanimità è il voto con cui i delegati di tutte le correnti del partito, al termine del discorso, lo eleggono segretario. 

  
I segnali di un nuovo interessamento per formule e temi apparentemente lontani dalla sua storia e dalla sua formazione, che pure ci sono, lì per lì passano inosservati, o forse sottovalutati, probabilmente derubricati a semplici artifici di comunicazione, questioni di immagine, inevitabili concessioni allo spirito del tempo. Un modo come un altro di imbellettare, con una patina di radicalismo e giovanilismo, con qualche trovata capace di dare almeno il profumo della novità, una linea politica che a tutti pare obbligata, dopo la tempestosa caduta del secondo governo Conte e il subitaneo arrivo a Palazzo Chigi di Mario Draghi, con le conseguenti dimissioni di Nicola Zingaretti. Dimissioni che amici e nemici, al di là delle dichiarazioni ufficiali, giudicano inevitabili, visto il modo in cui il leader del Pd ha sposato la causa del precedente governo e soprattutto del precedente presidente del Consiglio, il celebre “punto di riferimento fortissimo”, specialmente nei momenti più intensi della crisi, con quei manifesti in cui il Pd dichiara esplicitamente l’alternativa secca: o Conte o il voto. 

   

      
Goffredo Bettini, uno dei dirigenti più vicini a Zingaretti, ha rivelato chiaramente – forse persino più esplicitamente di quanto avrebbe voluto – quali fossero i loro sentimenti in quel momento, in un passaggio del suo manifesto politico in cui spiega che Conte è caduto “per una convergenza di interessi nazionali e internazionali che non lo ritenevano sufficientemente disponibile ad assecondarli”. 

  
Al di là dei prevedibili imbarazzi suscitati da una tale ricostruzione – cui dà voce Claudio Petruccioli, replicando che Conte non è Salvador Allende, e soprattutto Draghi non è Pinochet – un dato di fatto resta incontrovertibile: in poche settimane, con il cambio della guardia prima alla Casa Bianca e poi a Palazzo Chigi, è cambiato il mondo, e nessuno dubita che debba cambiare di conseguenza anche la posizione del Partito democratico. Passare dall’appoggio al leader del primo partito populista del paese, come capo di governo e come possibile leader dell’intera coalizione di centrosinistra, al sostenere l’esecutivo dell’ex presidente della Bce, per di più nell’ambito di una maggioranza di unità nazionale che arriva fino alla Lega, c’è poco da dire, non è una svolta da poco. A essere pignoli, non è nemmeno una svolta: è proprio un’altra linea politica. Una linea che a nessuno al mondo poteva risultare più congeniale che a Letta. Se solo Letta fosse stato quello che tutti ricordavano.

 
In quel primo discorso davanti all’Assemblea nazionale il nuovo segretario, come tutti i suoi predecessori, non manca di denunciare la piaga delle correnti, ma lo fa, per una volta, con un tratto di sincerità autobiografica generalmente assente: “Sono stato uomo di corrente per tutta la vita – dichiara – ma così non funziona. Sto per diventare segretario di questo partito, ho cercato di capire la geografia interna delle nostre correnti, e forse non l’ho ancora capita: se non l’ho capita io, fidatevi che c’è un problema”. Una versione non solo più sincera di quelle abitualmente rifilate ai giornali dai suoi colleghi, ma pure più astuta: perché anche il più tenace capocorrente riconosce ormai che il meccanismo da troppo tempo ha cominciato a girare su stesso, producendo una superfetazione di gruppi e gruppuscoli che rendono impossibile la vita di tutti, in un ginepraio di ambizioni, aspirazioni, rivalità e risentimenti incrociati.

 

Un prudente diventato temerario. Sorprende nel politico  pragmatico il progressivo radicalizzarsi dei messaggi.  Voto ai sedicenni, “dote” per i giovani, ius soli:  Letta sembra deciso a intestarsi solo battaglie che non può vincere

   

Chiamato a cambiare radicalmente linea dopo essersi fatto votare da una platea di dirigenti eletti alle primarie col suo predecessore – e dunque, in qualche modo, in accordo con lui – Letta dà il meglio proprio sul passaggio più delicato, danzando sul filo del fuorigioco tra svolta e continuità, definendo finalmente il governo Draghi “il nostro governo” e parlando di un “nuovo centrosinistra”, per poi aggiungere, significativamente, che “questo nostro centrosinistra andrà all’incontro con i Cinque stelle che saranno guidati da Giuseppe Conte, a cui mando un saluto affettuoso”. Precisando in tal modo, implicitamente, che il centrosinistra è una cosa e i Cinque stelle un’altra. Qualcuno, per breve tempo, s’illude dunque che Conte e i Cinque stelle siano stati salutati davvero, una volta per tutte.

   
Di sicuro, appena eletto segretario, Letta sembra già rientrato in partita, mostrando proprio quelle doti di accortezza ed equilibrio per cui era sembrato a tutti l’uomo giusto al momento giusto. E anche le prime uscite con cui cerca di caratterizzarsi a sinistra, dallo ius soli alle foto accanto al fondatore di Open Arms, e le conseguenti polemiche con Matteo Salvini, vengono giudicate secondo lo stesso metro: un misto di autenticità e abilità.

   
Autenticità: perché è pur sempre il presidente del Consiglio dell’operazione Mare Nostrum, che su questi temi non ha mai fatto calcoli tattici o questioni d’immagine, ma sempre questione di principio. Abilità: perché dentro gli stretti vincoli di una maggioranza di unità nazionale in cui il Pd non solo deve stare, ma di cui secondo lo stesso Letta deve essere “il motore”, quello è evidentemente l’unico modo possibile per tentare di suscitare comunque nell’opinione pubblica un minimo effetto di polarizzazione, prendendosi qualche spazio sui giornali con uno scontro su un tema che la base possa riconoscere come proprio, restituendo al partito e all’elettorato almeno l’impressione di un protagonismo a lungo scolorito dietro il sostegno acritico a Conte e alle stucchevoli trattative sulle alleanze con i Cinque stelle, peraltro raramente concretizzate e quasi mai coronate da successo. 

   
Tutto sembra insomma filare per il verso giusto. D’altra parte, in politica come nella vita, non esiste ricetta per il successo che possa andar bene in ogni occasione e in ogni contesto, a prescindere dal mondo intorno a te: alla fine è sempre una questione di dosaggi, di tempi e di modi. Perché la politica è un brivido che vola via, è tutto un equilibrio sopra la follia, e l’equilibrio miracolosamente trovato da Letta – senza che nessuno sappia davvero spiegarsene il motivo – dura pochissimo.

   
La prima nota davvero stonata è l’intervista al Corriere della Sera in cui, appena arrivato, chiede di fatto la testa dei due capigruppo. Anche qui, nel merito, ci sarebbe poco da dire: con il cambio del segretario fare almeno il gesto di presentare le dimissioni, da parte dei presidenti dei gruppi parlamentari, dovrebbe essere considerato un atto di minima cortesia istituzionale. Così come è più che ragionevole porre anche un problema di coerenza tra l’indirizzo del segretario e quello di chi guida deputati e senatori, a maggior ragione se appare ancora fortemente legato, specialmente nel caso del capogruppo in Senato, Andrea Marcucci, a una leadership come quella di Matteo Renzi, che guida ormai un altro partito. Ma presentarsi, come fa Letta, dicendo che ci vogliono più donne al vertice del partito, e siccome lui è un uomo e ormai l’hanno eletto, farsi da parte tocca agli altri due, e dirlo ai giornali prima ancora che ai diretti interessati, come dire, non pare il modo più convincente di porre la questione. 

   
Pare piuttosto il modo più sicuro per avvitarsi in polemiche interne, schermaglie e ripicche personali che certo non contribuiscono a rilanciare l’immagine del partito. Fatto sta che Graziano Delrio, capogruppo alla Camera, non tarda a cedere il passo. Ma con Marcucci la faccenda si fa assai più complicata. E lunga. E tutt’altro che edificante. Insomma, alla fine i due capigruppo saranno sostituiti da due donne, ma la battaglia lascerà ampi strascichi. E soprattutto offrirà alla stampa l’occasione per riaprire il romanzo dell’insanabile conflitto con Renzi e i renziani, esattamente dalla pagina in cui l’avevano lasciato al momento dell’uscita di Letta da Palazzo Chigi. 

  
Ancora più sorprendente, per un politico di cui tutti ricordavano il pragmatismo, la prudenza, il gusto per la precisione e la competenza, per lo studio delle politiche concrete più che per la politique politicienne, tanto da assumere nel tempo un profilo quasi tecnico, per non dire tecnocratico, è il progressivo radicalizzarsi dei suoi messaggi. Accompagnato da una notevole inclinazione per l’astratta dichiarazione di principio.

   
Il voto ai sedicenni, la “dote” per i giovani, la legge Zan, lo ius soli. Quello che stupisce non sono le singole proposte, tutte più o meno coerenti con la storia del centrosinistra e del Pd, e su cui, nel merito, in pochi hanno qualcosa da ridire (e comunque raramente lo dicono in pubblico). Quello che stupisce è la costanza con cui Letta sembra deciso a intestarsi solo battaglie che non può vincere, perlomeno se fatte in quel modo e in quel momento, con un doppio danno, tanto per la causa quanto per il partito. 
Da che è diventato segretario, infatti, non una di quelle proposte si è concretizzata in alcun modo. E lo stesso saltellare dall’una all’altra ha finito per dare l’idea di un approccio insincero e strumentale (immagine che oltre tutto, per le ragioni già dette, non corrisponde nemmeno al vero).

    
Quando i campionati europei sono appena cominciati, Letta si spinge fino a criticare gli azzurri per non essersi inginocchiati in segno di solidarietà con il movimento Black Lives Matter, facendo appello ai giocatori perché seguano l’esempio dei più sensibili avversari. A conferma tanto della sincerità del suo impulso (a quale altro politico sarebbe mai venuto in mente di criticare la nazionale in un momento simile?), quanto della scarsa efficacia della strategia (la polemica infatti è rapidamente, e saggiamente, lasciata cadere).
Forse però ancora più rappresentativo dei costanti rischi di testacoda tra collocazione ultra-draghiana al governo ed enfasi su parole d’ordine identitarie nel partito è l’incidente causato, paradossalmente, da quella che a tutti era apparsa come la più innocua, se non altro, fra tutte le proposte avanzate da Letta. Quella sulla dote ai diciottenni: diecimila euro da dare a ogni ragazzo per completare gli studi, per la casa oppure per aprirsi un’attività. Come al solito, il merito è assai vago e soggetto a progressivi aggiustamenti in corsa, il principale dei quali esce sui giornali a poche ore da un’importante conferenza stampa del capo del governo, e riguarda il modo di finanziare la misura: con la tassa di successione. Quando i giornalisti domandano a Draghi che ne pensi sembra proprio di cogliere in lui un moto di sorpresa – una sorpresa certo non gradita – cui fa seguito una stroncatura senza appello: “Non ne abbiamo mai parlato, non l’abbiam guardata, ma insomma questo, ho detto più volte, non è il momento di prendere i soldi dai cittadini, ma di darli”.

  
Tra i primi a twittare, dicendosi completamente d’accordo con Draghi, c’è ovviamente l’ex capogruppo del Pd, Marcucci. In compenso, qualche tempo dopo, a “Otto e mezzo”, arriva l’autorevole approvazione di Thomas Piketty, uno degli economisti più famosi, e radicali, del panorama internazionale, autore di ponderosi studi sulla distribuzione della ricchezza. “L’economista Thomas Piketty a ‘Otto e Mezzo’ sostiene a spada tratta la proposta di dote 18 finanziata con tassa di successione per i patrimoni milionari. Bene. Avanti!”, si entusiasma Letta su Twitter.

   

Lo scivolamento verso posizioni più populiste che di sinistra sulla giustizia. L’equidistanza tra “giustizialisti”e “impunitisti” (neologismo coniato da Letta). L’affinità  imprevista e apparentemente inspiegabile  con  Conte.  Lo scarto più impressionante, quello sulla politica internazionale. Le “guerre sbagliate dell’Occidente”

     

E chissà che una parte della sua misteriosa trasformazione non si spieghi proprio con quei raffinati ambienti progressisti frequentati per tanti anni a Parigi. Intanto, con l’appoggio dell’economista francese, si è guadagnato anche l’approvazione di Fausto Bertinotti, che dice al Foglio: “Usare il nome di Piketty, di cui condivido le idee, è come usare un bengala: si segnala una svolta, si indica una direzione”. 

  
Il problema è che la direzione della svolta non è poi così chiara. Ad esempio sulla giustizia, dove lo scivolamento del Pd, e dello stesso Letta, verso posizioni più populiste che di sinistra, diciamo pure verso il grillismo, si fa assai preoccupante. 

  
All’indomani della lettera al Foglio in cui Luigi Di Maio per la prima volta fa autocritica sulla “gogna mediatica”, in seguito all’assoluzione del sindaco di Lodi, bersaglio a suo tempo dei Cinque stelle non meno che della Lega, Letta assume un’inedita posizione di equidistanza tra “giustizialisti” e “impunitisti” (neologismo coniato da lui, che la dice lunga sull’evoluzione del suo pensiero in materia). Un’equidistanza che raggiunge i limiti dell’ignavia nella battaglia sulla riforma della prescrizione, quando Conte sconfessa i suoi stessi ministri e costringe il governo a riaprire la trattativa sulla prescrizione.

  
I più sorpresi di tutti dalla svolta radicale di Letta sono i suoi ex compagni di partito nella Margherita, e prima ancora nei Popolari – gli ex democristiani, insomma – che in tanti anni di comune militanza, congressi e campagne elettorali, erano abituati a vederlo sempre saldamente posizionato alla loro destra, e adesso non si raccapezzano più. Era quello che parlava con i poteri forti, ora parla come uno di Potere al popolo, dicono i più spiritosi (in questi tempi oscuri, occorre pure precisare che si tratta, per l’appunto, di spiritosaggini, e che nel suo partito nessuno gli imputerebbe seriamente di aver parlato con i “poteri forti”, non essendo il suo partito il Movimento 5 stelle, o almeno non ancora).

   
Era quello che ogni volta che in televisione doveva dire una parolaccia – per stigmatizzare la maleducazione altrui, s’intende – diceva: “Una parola che comincia per esse, continua per ti, prosegue per erre...”. Ed era capace di andare avanti così fino all’ultima lettera, per interminabili minuti di spelling. E adesso eccolo su La7, ospite di “In Onda”, a vantare improbabili radici gramsciane, con tanto di albero genealogico disegnato a favore di telecamera, per rivelare finalmente al mondo che – seguitemi con attenzione – la sorella più piccola di sua nonna, cioè la zia della madre, aveva sposato il figlio della sorella del fondatore del Partito comunista. Non una parentela, come precisa subito modestamente, ma “un’affinità”.

   
L’affinità più imprevista e apparentemente inspiegabile resta però quella con Giuseppe Conte. Tra i primi che il neosegretario decide di incontrare con tutti gli onori (indovinate chi sarà invece l’ultimo, senza nessun onore e anzi tenuto ostentatamente in fondo alla lista? Avete indovinato: Renzi). “Un primo faccia a faccia, molto positivo, tra due ex che si sono entrambi buttati, quasi in contemporanea, in una nuova affascinante avventura”, twitta Letta subito dopo l’incontro con Conte, che in quel momento, peraltro, non ha nemmeno alcuna carica ufficiale all’interno dei Cinque stelle.

   
Ma la battuta più tremendamente rivelatrice è quella che Letta si lascia scappare in aprile, ospite di “Piazza pulita”. “La sensazione è che il suo partito ancora si senta fortemente orfano del governo precedente”, gli domanda Corrado Formigli, ricordando le scelte di Zingaretti e le dichiarazioni di Bettini. “Lei se ne stava a Parigi, a Sciences Po, all’università, quindi era lontano... ma non l’ha sentita come una profonda ingiustizia, la caduta di Conte, come una cosa fortemente negativa?”, lo incalza il giornalista.  

   
“Intendiamoci, io c’ho rivisto qualcosa che avevo conosciuto, perché Conte è caduto per mano di Matteo Renzi”, risponde Letta.
I suoi estimatori, nonostante tutto, parlano di una strategia sottile, che mira a non precludersi nessuna opzione almeno fino all’elezione del presidente della Repubblica. Non sapendo se in quel momento Draghi salirà al Quirinale e quindi toccherà correre al voto in uno scontro bipolare con il centrodestra, o se invece il governo ne uscirà stabilizzato, Letta si sarebbe tenuto aperte tutte le porte: con Draghi ma anche con Conte, istituzionale ma anche radicale, riformista ma anche grillino.

   
Qualcuno ci vede persino una nuova possibile tendenza della sinistra europea, e magari mondiale, accostando il profilo pragmatico e insieme radicale di Letta a quello del fresco vincitore delle elezioni tedesche, Olaf Scholz: anche lui un uomo proveniente dall’ala più moderata e pragmatica del suo partito, anche lui visto inizialmente come troppo freddo e distaccato (“Perché non mi mostro più emotivo? Non mi candido a direttore del circo”, è una delle sue battute più celebri), ma al tempo stesso capace di rimettere al centro della sua campagna lavoro e salari, a cominciare dalla proposta del salario minimo, che non per niente è anche una delle proposte del Pd. Gli ottimisti ci vedono insomma una nuova strada (le vie sembra si sia deciso saggiamente di smettere di numerarle, almeno per un po’) in grado di coniugare pragmatismo e identità, toni bassi e messaggi chiari. Una sinistra, per dir così, radical soft.

   
Eppure, per quanto si vogliano girare e rigirare i termini della questione, c’è sempre qualcosa che non torna. Un pezzo del puzzle che proprio non combacia. In tanti, ad esempio, ricordano l’entusiasmo di Letta per il governo Monti, rivelato al grande pubblico sin dal dibattito per la fiducia, nel novembre 2011, quando l’obiettivo di un fotografo catturò il testo di un biglietto che il presidente del Consiglio stringeva tra le mani: “Mario, quando vuoi dimmi forme e modi con cui posso esserti utile dall’esterno. Sia ufficialmente (Bersani mi chiede per es. di interagire sulla questione dei vice) sia riservatamente. Per ora mi sembra tutto un miracolo! E allora i miracoli esistono! Enrico”.

  
Nel Pd, specialmente tra gli ex renziani, con cui è evidente che il conto è sempre aperto, alcuni si domandano come sia possibile sognare Mario Monti e svegliarsi Mario Tronti. Ma fanno un torto al padre dell’operaismo, che su questioni identitarie e radicalismi intorno ai diritti civili è assai più cauto e pragmatico di Letta.

  
Certo fa sorridere leggere che la chat whatsapp dei suoi sostenitori nella corsa per il collegio senese si chiami “Letta continua”, con un gioco di parole che sembra evocare la nuova giovinezza movimentista di un ex primo della classe.

  
D’altra parte, se oggi Romano Prodi se la può prendere con “trentacinque anni di un liberismo che ha devastato i diritti sociali”, lui che in questi trentacinque anni è stato presidente dell’Iri, due volte presidente del Consiglio e presidente della Commissione europea (e dunque, come ha già ricordato Luciano Capone, quel poco o tanto di liberismo che ha avuto l’Italia, comunque lo si giudichi, è in buona misura opera sua); se oggi proprio quei dirigenti del centrosinistra che negli anni Novanta si battevano per importare la terza via di Tony Blair e Bill Clinton si atteggiano a novelli Bernie Sanders, non c’è nemmeno da discuterne, Letta appare di gran lunga il più coerente e il più sobrio. 

  
Lo scarto più impressionante, tuttavia, avviene proprio sulla politica internazionale. “Non dimentichiamo mai che la metà dei rifugiati arrivati in Europa nel decennio scorso – dichiara il leader del Pd il 17 agosto in un’intervista a Repubblica – provenivano da Afghanistan, Iraq e Siria, le tre guerre sbagliate dell’Occidente”. Dove l’aggiunta di una guerra che l’occidente non ha mai fatto, quella in Siria, è forse il dettaglio che colpisce di meno (sebbene anch’esso contribuisca a dare l’idea di uno slancio eccessivo e di un’uscita, quanto meno, poco calcolata). 

   
I principali partiti del centrosinistra da cui sarebbe nato il Pd, e in particolare la Margherita in cui militava allora Letta, non erano mai stati sulle posizioni di Gino Strada e di quelli che gridavano “No alla guerra senza se e senza ma”. Anzi, i riformisti di entrambe le formazioni maggiori dell’alleanza, Ds e Margherita, proprio sull’intervento in Afghanistan, all’indomani dell’11 settembre, avevano condotto una battaglia interna durissima, una battaglia che si era giocata sui principi fondamentali, sul valore della pace e sul rispetto dei diritti umani, sul significato della democrazia e sul ruolo delle nostre alleanze internazionali, contrastando antiamericanismi e complottismi. 

  
Naturalmente, se tutto questo fosse stato oggetto di una riflessione autocritica, di una revisione e di un dibattito sincero, non ci sarebbe nulla da dire. Quello che colpisce è che sembra sia stato semplicemente dimenticato.  

  
Come sempre, in ogni caso, è la somma che fa il totale. E i messaggi, i toni, i segnali di Letta – che è come dire tutto, giacché le scelte concrete, in questa situazione, è Draghi a compierle – vanno sempre nella stessa direzione.

  
In questo, il suo percorso appare molto simile a quello dei suoi vecchi compagni di governo, pur provenienti da un’altra tradizione politica, Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema. Comunque si voglia spiegare la loro traiettoria, sembra di riconoscere nelle loro scelte e nelle loro parole di questi ultimi anni un tratto comune, che tiene insieme la nostalgia per i bei tempi andati dell’Ulivo e del centrosinistra, una lettura non sempre lineare dei risultati concreti di quella stagione (e delle posizioni da ciascuno di loro assunte a quel tempo) e una forma di radicalizzazione che li ha portati, progressivamente, sulle posizioni dei loro primi contestatori. 
Che si parli di politica economica o di politica internazionale, di mercato del lavoro o di giustizia, le posizioni di quelli che si definivano allora i riformisti, ed erano la maggioranza – quella maggioranza che avrebbe dato vita al Partito democratico – sembrano condannate così a una sorta di damnatio memoriae da parte degli stessi protagonisti.

  
Vedremo se le elezioni amministrative offriranno l’occasione di cementare la nuova-vecchia coalizione che Letta sembra inseguire da tempo, con tanti saluti alla legge proporzionale, primo di quei “correttivi” che il Pd aveva promesso in cambio del suo appoggio al taglio dei parlamentari. D’altronde, la lunga storia del centrosinistra è ricca di galvanizzanti vittorie amministrative, capaci di generare nei dirigenti e nei militanti i più sfrenati sogni di gloria. Ma non è meno ricca di amari risvegli.
 

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