La chiesa di San Babila e dintorni, a Milano, estratto dalla mappa del catasto teresiano del 1751 (Wikimedia Commons) 

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Perché la revisione del catasto può incidere molto sulla redistribuzione della ricchezza

Una riforma tutta in salita

Lorenzo Borga

Valori antiquati e scompensi tra centro città e periferie vanno rivisti, ma riformare lo status quo è un tema divisivo. Oggi però c’è l’Europa che preme

È impressionante notare la resistenza che incontra la riforma del catasto ogni volta che se ne torna a dibattere. Oggi tocca alla nuova legge delega fiscale che la maggioranza vuole varare probabilmente entro settembre (inizialmente era prevista per luglio) e che dovrebbe contenere anche la revisione del catasto. Se non per aggiornare i valori ormai decisamente antiquati, almeno per ricevere i fondi europei del Next Generation Eu. La Commissione europea ci ha richiesto infatti nelle raccomandazioni annuali, che sono l’asse portante del Pnrr, di aggiornare i valori catastali – assieme a un’altra serie di misure – con l’obiettivo di ridurre la troppo elevata pressione fiscale sul lavoro.

    
Il catasto è alla base delle imposte applicate sugli immobili, che sia l’Irpef sugli affitti, l’Imu o le tasse sui servizi come la Tasi. E’ dunque chiaro il motivo per cui il tema risulta tanto scottante: l’applicazione dei circa 40 miliardi di euro di tasse che gravano sui proprietari di case e uffici – che in Italia sono tantissimi – dipende dai valori contenuti nel catasto. Il problema è la sua arretratezza: non viene aggiornato da decenni, se non surrettiziamente attraverso aliquote e moltiplicatori che però colpiscono tutte le categorie di edifici allo stesso modo, senza differenziare per il reale valore. Secondo il ministero dell’Economia, nel 2019 i valori catastali erano pari in media solo alla metà dell’attuale valore di mercato degli immobili. D’altronde il registro degli immobili non è nemmeno corretto per l’inflazione e l’utilizzo del numero di vani, al posto dei metri quadri, non è più adeguato nella misurazione del pregio di un appartamento.

   
Aggiornare i valori catastali significherebbe dunque che una larga fetta di contribuenti dovrebbe pagare di più (chi gode di un privilegio) o di meno (chi invece è sfavorito dal meccanismo) rispetto a quanto accade oggi. Secondo gli esperti lo status quo tende ad avvantaggiare le abituazioni nei centri città, che sono state registrate nel catasto più indietro nel tempo a valori mai più aggiornati, mentre chi vive in periferia paga relativamente di più, perché gli immobili sono stati accatastati più di recente. Un meccanismo che attiva una redistribuzione al contrario, visto che chi vive in periferia guadagna in media un reddito più basso rispetto a chi risiede in centro. I dati del ministero dell’Economia sulla differenza media tra il vecchio valore catastale e quello attuale di mercato – più marcata al crescere del reddito dei proprietari – sono lì a dimostrarlo. Per giunta l’Imu, che rappresenta circa la metà del gettito dal mercato immobiliare, oggi è sostanzialmente esentata sulle prime case, e dunque a essere colpite non sarebbero certo le famiglie più in difficoltà.

   
Il timore di chi si oppone all’aggiornamento, come Confedilizia, è che sia “esplicitamente finalizzato all’aumento della tassazione sugli immobili”, come propone in effetti l’Ue. Il ragionamento delle istituzioni europee è che incentivare il lavoro, riducendo il cuneo fiscale, tende a spingere il pil più che la tutela del mercato immobiliare. Un progetto corretto nella pratica economica, ma di difficile attuazione politica. Perciò per portare a casa il risultato le forze politiche a favore della riforma stanno proponendo di mantenere stabile il livello medio di prelievo sugli immobili, finanziando riduzioni d’imposta attraverso il maggior gettito dei nuovi valori catastali. Per esempio per rivedere le aliquote Imu e il calcolo dell’indice Isee, che rischierebbe di escludere molte famiglie da agevolazioni e sussidi poiché basati sui valori catastali. D’altronde secondo l’Ocse il gettito fiscale proveniente dal patrimonio immobiliare (l’1,2 per cento del pil) non è inferiore alla media internazionale, come è invece il caso – per esempio – della tassazione di eredità e donazioni. Oltre alla redistribuzione necessaria, la riforma potrebbe comportare benefici in termini di semplificazione normativa, di stima del valore degli immobili e di contrasto all’evasione fiscale che rappresenta circa un quarto del gettito potenziale Imu.

  
Eppure è la redistribuzione a rimanere il tema più politicamente divisivo: nel nostro paese infatti le politiche di redistribuzione non sono particolarmente amate, vista la scarsa fiducia sociale e nelle istituzioni che caratterizza gli italiani. Una condizione che tende a bloccare il rinnovamento dello status quo e a perseguire politiche che gli economisti chiamerebbero pareto-ottimali: in cui cioè qualcuno migliora la propria condizione ma non a discapito degli altri. Un risultato che però nella realtà è molto difficile da raggiungere, soprattutto con le politiche fiscali, cristallizzando lo status quo spesso iniquo. Anche per decenni, come è accaduto con il catasto.
 

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