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La libertà di licenziare non sarà una catastrofe

"Si torna a parlare di sviluppo e di lavoro, dopo un anno in mezzo in cui siamo stati costretti a parlare di sussidi"

Lorenzo Borga

I sindacati hanno diffuso numeri impressionanti sui licenziamenti ma la realtà è ben diversa e lo dicono i numeri diffusi dal ministero del Lavoro

Il mercato del lavoro si sta riprendendo la scena nel dibattito pubblico delle ultime settimane. Tra le discussioni sulla fine del blocco dei licenziamenti e quelle per le presunte difficoltà di alcune imprese nella ricerca di lavoratori, si avverte un cambio di tendenza. Almeno si torna a parlare di sviluppo e di lavoro, dopo un anno in mezzo in cui siamo stati costretti a parlare di sussidi e di chiusure.


Ma ciò non significa che vada tutto bene. Il dibattito sulla fine del blocco dei licenziamenti mostra quanto sia difficile tornare alla normalità. Un fatto accettato da tutti fino a prima della pandemia – che un datore di lavoro abbia la libertà di licenziare un proprio dipendente per giustificato motivo – ora è messo in discussione. Alcuni sindacati dei lavoratori stanno diffondendo numeri impressionanti sul possibile impatto della fine del blocco dei licenziamenti. Secondo il segretario della Cisl Luigi Sbarra sarebbero 500 mila i lavoratori a rischio licenziamento. Nell’ottobre scorso la Cgil aveva diffuso il numero di un milione di licenziamenti. Mentre il leader della Uil, Pierpaolo Bombardieri, è arrivato ad affermare che i licenziamenti potrebbero essere fino a due milioni.

 

Per capire di cosa stiamo parlando va detto che in un anno che possiamo considerare normale i licenziamenti si aggirano poco sotto il milione. Nel 2019 erano stati 867 mila, l’anno prima 875.430. Arrivare dunque a due milioni di licenziamenti in poco più di un anno (da marzo 2020 all’estate 2021) sarebbe plausibile solo in caso di due condizioni: primo, se le imprese fossero in attesa di un forte calo dell’attività economica nella seconda metà dell’anno e, secondo, se fino a ora non avessero potuto alleggerire in alcun modo la propria forza lavoro.

 

Iniziamo dalla prima: il calo del reddito dell’anno scorso è stato gravissimo, fino ad arrivare quasi al -9 per cento rispetto al 2019. Si è trattato di uno dei peggiori risultati di tutto l’Occidente. Ma i segnali incoraggianti fortunatamente ci sono. Il primo trimestre dell’anno si è concluso con una leggerissima ripresa secondo i nuovi dati dell’Istat. La produzione industriale è tornata ai livelli pre Covid, come era accaduto durante l’estate 2020 quando il paese aveva vissuto un forte rimbalzo economico. Le riaperture finalmente hanno dato fiato anche ai servizi, i più penalizzati fino a oggi. E la mobilità degli italiani è tornata ai livelli precedenti alla pandemia. La ripresa sarà ancora lunga e lenta, ma le prospettive per la seconda metà dell’anno sono decisamente positive.

 

Per quanto riguarda invece la seconda condizione la realtà è ben diversa. Lo dicono i numeri diffusi dal ministero del Lavoro. Nel 2020 i licenziamenti sono stati poco più di 550 mila. Un dato che probabilmente stupisce i più, visto che non si parla d’altro che di blocco dei licenziamenti. Ma in realtà il blocco si applicava solo ad alcune categorie di cessazione, quelle dovute a motivi economici: i licenziamenti disciplinari, quelli per cessazione di attività e quelli dei dirigenti sono rimasti permessi. E secondo alcuni esperti in altri casi potrebbe essere mancata la determinazione degli ex dipendenti di fare ricorso contro il proprio datore di lavoro che li aveva licenziati, lasciando campo libero a un’area grigia. Sta di fatto che i numeri non mentono. I licenziamenti nel mezzo della pandemia non si sono bloccati, al più possiamo dire che si sono quasi dimezzati. A questi va poi aggiunto in larga parte chi non si è visto rinnovare il proprio contratto a tempo determinato. Prima della ripresina degli ultimi mesi, i dipendenti a termine erano calati in Italia – rispetto all’inizio della pandemia – di 278 mila unità. In sostanza uno su dieci.


E’ evidente dunque che i numeri, con tutta probabilità, saranno minori rispetto a quelli denunciati dai sindacati, fortunatamente. Se in effetti l’economia italiana tornasse a crescere con vigore quest’anno, raggiungendo la crescita del 5 per cento del pil (niente di eccezionale, la Francia è previsto cresca del 5,8 e la Spagna del 5,9), si potrebbe raggiungere l’obiettivo che il blocco dei licenziamenti si era dato: mettere l’economia in freezer. Vale a dire far passare la tempesta economica e sociale, e sbloccare nuovamente le cessazioni dei rapporti di lavoro solo quando l’economia sarebbe ripartita, per evitare di distruggere realtà produttive per il blocco economico temporaneo dato dalla pandemia. Ebbene, quel momento sembra essere arrivato. Anche perché, come ogni scelta economica, non è priva di costi. Quelli del blocco dei licenziamenti li ha ricordati l’Ufficio parlamentare di Bilancio: “L’eliminazione del blocco dei licenziamenti favorirà le politiche di occupazione a favore dei soggetti, soprattutto i giovani, in cerca di lavoro che nei mesi scorsi hanno visto venire meno le opportunità di impiego”. E solo il tempo ci potrà dire se i costi sono stati proporzionati ai benefici: nessun altro paese europeo ha imposto un blocco dei licenziamenti come il nostro, eppure i risultati del mercato del lavoro italiano non si differenziano dal resto del continente. Al massimo lo fanno in peggio.
 

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