Nicola Zingaretti alla ripartenza in piazza San Cosimato a Trastevere per il Cinema in piazza (Foto Mauro Scrobogna /LaPresse) 

I diari di Zinga

Michele Masneri

Provincia e regione, dopo 14 anni “una bella soddisfazione” (con qualche callo alle mani). Il gran rifiuto su Roma. Gli incontri col Papa di un “cristiano senza il dono della fede”. E poi la famiglia, il partito e “le pippe della sinistra rétro”.  Al bar con l’ex segretario del Pd

Tutti dicono: non sai che persona! Che umanità! Devi fargli un’intervista non politica! Allora chiedo quest’intervista non politica con Nicola Zingaretti. Nel frattempo Nicola Zingaretti molto politicamente si dimette da segretario del Pd. E poi ci incontriamo. L’idea è parlare d’altro. Far venir fuori questa straordinaria umanità.  Nel frattempo la regione Lazio è diventata una specie di terra promessa vaccinale: c’è persino una app che funziona per prenotarsi, io stesso mi sono  felicemente inoculato di Johnson & Johnson: in farmacia, dietro casa. E’ il momento, insomma, del Lazio-pride.

 
Beh, che trionfo. 

Abbiamo raccolto i frutti di otto anni di lavoro. Questa era una regione commissariata. Blocco del turnover, uscivano 600 persone e ne entravano 60, un livello di prestazioni tra i più bassi d’Italia. Ora se vai nei centri vaccinali sono tutti ragazzi e ragazze.  
 

Pure la app. E’ una provocazione, una app romana che funziona.

Eh, è figlia di un investimento di 30 milioni di euro che quattro anni fa abbiamo messo sul nuovo data center regionale. E ora stiamo portando a termine tutta la digitalizzazione del sistema sanitario. Col cellulare prenoti le visite, paghi… Quando è arrivato il Covid è stato drammatico, però in qualche modo eravamo attrezzati.  Se arrivava quattro anni prima era una strage.

 

E’ la prima volta che mi sento orgoglioso di avere in tasca quel tesserino della regione Lazio. Certo gli uffici sono un po’ così. Dovreste fare anche voi un grattacielo. Palazzo Lazio, come palazzo Lombardia.  

Eh, sì, del resto è l’edificio in cui hanno girato “Fantozzi”. La megaditta. E manco lo possiamo cambiare.

 
Neanche col superbonus? Ma è di proprietà o è in affitto?

Di proprietà. Ma adesso coi fondi europei per il riefficientamento energetico lo rifacciamo tutto, dall’ultimo piano a scendere. E poi guarda che se chiudi gli occhi assomiglia molto al palazzo della Commissione europea di Bruxelles!

 
Insomma.

Ma sì. E’ un triangolo. Era un ospedale, in origine, come destinazione d’uso. Ma non è mai stato inaugurato. 

 
Il karma sanitario della regione Lazio! Ma lei si è  un po’ bullato coi suoi colleghi governatori di tutta questa efficienza del Lazio? Colleghi che prima magari la  snobbavano. (Fa delle facce, ride con le guanciotte).

Mettiamola in positivo. Sono molto contento che la gente mi fermi per strada. Mi dicono: sono orgoglioso di essere cittadino del Lazio! Dopo 14 anni è una bella soddisfazione! 

  
L’unico problema è che in mezzo al Lazio però c’è Roma. Io sono andato a vaccinarmi in piazza Manfredo Fanti all’Esquilino, una piazza bellissima, tutto efficiente, peccato che è tipo il più grande orinatoio a cielo aperto d’occidente, in mezzo a una discarica diffusa.

Eh, ma quella è Roma. Purtroppo questa amministrazione in particolare, ma non solo, non ha a cuore Roma, ma chi la governa. Si è usata la città, non ci si è messi al suo servizio. Non so come sia stata possibile la faccenda della targa sbagliata di Ciampi. Davanti a un presidente della Repubblica seduto, che guarda. Capisci allora perché  a Roma può succedere di tutto, di tutto. Autobus che prendono fuoco, macchine che sprofondano nelle buche. Io non ci dormo la notte! 


Però lei su Roma ha fatto il gran rifiuto. Poteva essere un grande sindaco.

Eh, è un po’ più complesso di così. Guarda che son 14 anni. Guarda qui! (E mostra come medaglie le manone con delle strane macchie, evidentemente da stress. O calli. Ci ritorneremo, sui calli).

 
L’Italia ha sempre questo problema con Roma, la sua capitale. Sbagliano la data del centocinquantesimo. Le rifilano sempre dei candidati che sono degli scartini.
No, dài, scartino no. Gualtieri scartino no, è un ministro…

Dài.

  
… della Repubblica! … sarà un ottimo sindaco!

 Certo. (Meno male c’è la fisiognomica).

 
Siamo qui in questo  bar del quartiere Prati di Roma, la Heimat del centrosinistra italiano. All’angolo abita anche Massimo D’Alema. 

Va sempre a fare la spesa al supermercato qui dietro. Poi passa sempre a salutare. E scusa se ti ho fatto venire qui, ma è l’unico posto dove posso venire senza scorta. Cioè, posso scappare, ma non scriverlo. Cioè esco di nascosto, sì. Anche in bicicletta.  Ho preso una bici. E mi sembrerebbe un po’ grottesco farmi seguire dalla macchina. 
 

Storie del Churchill romano. L’incontro in un bar del quartiere Prati, “l’unico posto dove posso venire senza scorta”. Lo spiegone sulla politica come servizio ai cittadini, che sottolinea sbattendo i pugni sul tavolino 

  

Potrebbe costituire un corpo speciale di vigili ciclisti dai polpacci prodigiosi, come aveva fatto Marino. 
No, te pare. Ho un raggio di un chilometro in cui posso muovermi senza scorta. Oh, se me devono menà, me meneranno. Pazienza.

 
Una volta le hanno tirato un limone in faccia, ho letto.
Certo, pe’ difende la Polverini (la Polverini era stata appena eletta presidente, ed era stata appoggiata pure da Casa Pound. Sul palco del 25 aprile del 2009, lui ero presidente della provincia e lei della regione, e iniziano a contestarla, a tirare roba sul palco, ortaggi. Zingaretti si prende un limone nell’occhio, lei niente.  Zingaretti, dicono le cronache del tempo, pur con l’occhio accecato dal limone prima di andare via si  intrattiene a parlare con un ex partigiano. Mi sembra un episodio significativo).

  

   

  

Presidente della provincia e poi della regione. Avrà conosciuto un sacco di Papi. 
Ah... una delle cose più belle. Il 15 gennaio, il Santo Padre dà udienza. Stai una mezzora a colloquio. 

 
Ha un  suo Papa preferito?
Ma no! Non sono mica una categoria!

 
Su! Dobbiamo mettere in risalto la sua umanità! 
Beh, ho cominciato con Ratzinger, di cui apprezzavi quell’idea di una chiesa trascendente, tradizionale, la messa con le spalle al popolo… ma con Francesco ho avuto più tempo. 

 
Ma lei è credente?
Come ho detto una volta proprio a uno dei Papi, mi definisco un cristiano senza il dono della fede.

 
Molto Pd come definizione. 
Ma io vado a messa spesso, per lavoro, però non faccio la comunione, per rispetto!

 
Insomma parla non con Dio ma col prete, come Andreotti.
No, il contrario, proprio per quello, non scimmiotto.  

 
Il Vaticano non è un po’ una zavorra per lo sviluppo della città e del paese?
No, anzi, il contrario. E’ uno straordinario fattore di coesione sociale. 

 
Però lei è decisamente progressista. E’ per il ddl Zan senza tentennamenti.
Mi pare il minimo sindacale.

 
E questo suo essere progressista come si concilia con la frequentazione vaticana?
Ma se uno va a Buckingham Palace non è che diventa monarchico! 

 
A proposito, come funzionano queste visite? 
Eh, arrivi, ti accoglie il Santo Padre, stai mezzora e te ne vai.

 
Eh, ma ci dia i dettagli. Come arriva? In macchina?
Sì, certo, come ci devo andare?

 
Che ne so, in bici. Qualcuno si vantava di andarci in motorino.
No, no, in macchina

 
E come capisce che è finito il tempo? Il Papa suona un campanellino?
Sì (risponde timidamente, non molto convinto). 

 
Insomma è proprio “The Crown” alla romana. Lei è qui da un sacco. Avrà fatto più visite di tutti. E’ il Churchill romano.
Sono uno dai tempi lunghi: se guardi la mia biografia, vedrai che negli ultimi  anni ci sono: Europarlamento, poi provincia, poi regione. (Qui segue un lunghissimo spiegone di Zingaretti sui tempi lunghi della politica, riassumibile in: la politica come servizio ai cittadini, competenza, vedere i risultati. Tutto molto convincente, e che lui sottolinea sbattendo i pugnoni sul tavolino che traballa e fa sobbalzare il pinzimonio e il braccialetto che porta al polso, marca Pandora, con le iniziali in argento delle sue figlie, Flavia e Agnese). 

 
No! Non dobbiamo parlare di politica. Erano i patti. 
Hai ragione. Comunque nel Lazio non era mai capitato un presidente eletto due volte. E’ una patologia italiana, questa mania dei partiti personali, della velocità. Tutti puntano sul numero di riforme che fai. Ma il riformismo in sé non vuol dire niente! Anche le leggi razziali erano riformiste! Una cazzo di riforma! Il riformismo deve avere un’anima, una missione. O mi sbaglio? (E batte di nuovo il pugno sul tavolo, facendo traballare il pinzimonio che il cameriere ha portato. Si dice che sia molto attento alla linea; e confesso il conflitto d’interesse, Zinga lo vedevo nella mia palestra, quando s’è preso il Covid c’è stato il panico tra i personal trainer).  

 
Ormai in Italia c’è il format: politico di primo piano che sbrocca all’apice del successo.
Perché chi c’è?

 
Beh, Salvini, due anni fa.
Ah beh, ma quello era per andà a votà. 

 
E lei?
Io per una scelta di libertà, come sempre ho fatto nella mia vita. 
Ci sono stato molto male.  Ho capito che giravo il volante e la macchina  andava dall’altra parte. 

 
Forse non avrebbe dovuto comprare la classica macchina usata dal Pd.
Comunque vediamo come va a finire questo esperimento. 

 
L’esperimento  sicuramente è  strategico, perché dopo tre mesi di Letta tutti già la invocano come la Madonna pellegrina
No, no. Io sono un grande sostenitore di Enrico. Ma vorrei fare piuttosto un discorso politico!

 
No, dài.
Il fatto è che avevamo ragione noi! Se noi due anni e mezzo fa avessimo fatto quest’intervista e io ti dicevo le cose che servono: sanità pubblica, ricerca, welfare università, disuguaglianze, tu avresti detto: sì, vabbè, ecco uno che arriva dal Medioevo. Le solite pippe della sinistra rétro. Invece il Covid ha confermato che avevamo ragione noi. Che vuol dire un modello sostenibile, perché la destra il problema, al commerciante e all’imprenditore, non glielo risolve. Lo rappresenta. Ne parla, lo cavalca ma non lo risolve. La crisi del populismo lo ha dimostrato. “Tagliare la spesa pubblica”, e lo abbiamo preso in quel posto, ci siamo ritrovati senza mascherine. La pandemia che ci hanno detto per anni, cavalcare le paure, alla prova più importante della politica, che è salvare le vite umane, sono stati costretti ad accettare un’agenda politica che non è la loro, cazzo!  (e qui sbatte ancora  il pugnone sul tavolino, e finalmente ho una visione: Zingaretti è il compagno Folagra. Quello col fazzolettone rosso al collo che nelle pause pranzo in mensa fa radicalizzare Fantozzi, dopodiché Fantozzi tirerà un mattone nella vetrata della Megaditta, cioè la regione Lazio). Essere moderni era essere per l’austerità! Cazzo! Avevamo ragione noi!- continua Zinga-Folagra. E però l’abbiamo vissuta con subalternità e vergogna. Abbiamo vinto?
Non so. (A questo punto sono come Fantozzi davanti ai leader politici nelle tribune politiche multiple, inerme e inebetito davanti all’oratoria zingarettiana). 
Avete vinto?
No! Perché quello che è accaduto è che in quest’anno e mezzo ha fatto crescere le disuguaglianze, bisogna trovare un sistema per ridistribuire le risorse, questi mesi sono importanti. 
Oso ribattere: ma se l’unica idea è mettere una nuova tassa, la patrimoniale…
No, no, non voglio fare un’intervista politica, dài.

 
No, infatti. Io veramente volevo chiederle della cucina. So che lei è un ottimo cuoco. 

Ma quale cucina!  Il tema è la redistribuzione! Io non voglio entrare nel merito di chi critica le virgole di una proposta. Ma mi dà fastidio la reazione irritata delle classi dirigenti italiane quando dici che forse c’è bisogno di fare una festa un’altra volta alle spalle dei giovani, ma forse c’è bisogno di redistribuire…

 
Ma tra  fare festa e dargli una mancetta di diecimila euro non so, mi sembrano due concetti entrambi bizzarri... festa, mancette... 
Ma manco ci siamo arrivati alla mancetta! Intanto dagliela la mancetta! Ma che mi fai difendere Letta! Oh, sia ben chiaro, io lo difendo Enrico! (certo). E’ l’idea: tutti pronti a criticare la distribuzione della ricchezza. 

 
Ma siete ossessionati con tutta questa ricchezza da redistribuire. Non sarebbe meglio crearne un po’, una volta tanto? (Si innervosisce). 
Mi dà fastidio la reazione! Se so incazzati tutti! Ahò, boni! (Tira un altro pugno sul tavolino). 

  
Eccolo! Eccolo! (Per fortuna alla parola “redistribuzione” appare davvero D’Alema e mi salva dalla tribuna elettorale. E’ in abito blu, elegantissimo, armeggia al cellulare). “Andrà a un incontro”.
Roba di ventilatori?
Ma no! (Poi gira l’angolo e se ne va).
Vedrai che dopo passa a salutare – dice di nuovo Zingaretti.

 

Lui in politica, il fratello nel cinema: “Mio padre era preoccupato”. I viaggi e gli “incontri pazzeschi”. Giorgio Gaber tutto a memoria. Il fantasma di D’Alema

 

Se la politica italiana è il proseguimento dei licei classici di Roma centro con altri mezzi, lei ha fatto l’istituto professionale in periferia. Ma com’è che poi venite tutti a Prati anzi in Prati?
In realtà è una storia abbastanza strana di coincidenze: io sono cresciuto alla Magliana, poi a via del Serafico all’Eur, poi a piazza Bologna. Ma mia madre lavorava all’Inail qui dietro, io venivo a far colazione qui, dopo tanti anni in Fgci mi innamoro di quella che poi diventerà mia moglie, che abitava da queste parti e dopo trent’anno rivivo i quartieri che vivevo da bambino, dove lavorava mia madre.

 
So che è mancata da poco e che era un po’ la colonna della famiglia. Suo padre c’è ancora?
Sì.

 
Cosa faceva?
Dirigente della Banca commerciale italiana.

 
Quanti figli siete?
Io, Luca e Angela, che si occupa di spettacolo. Abbiamo tutti due figlie a testa, quindi sei nipoti femmine totali.

 
Che tipo di famiglia eravate? Qual è il segreto per produrre un attore celebre, suo fratello, e il (per poco) segretario del Partito democratico? 
Mio padre era molto preoccupato, veramente. Un figlio in politica e un altro nel cinema: molto preoccupato.  Però era una famiglia piena d’amore: mia madre ci portava la sera a Massenzio e di notte a vedere il festival di poesia a Castelporziano. Metteva un plaid e ci stavamo tutti. Non si stava mai a casa, si usciva tutte le sere. Io ho iniziato a far politica col movimento della pace, in risposta alla violenza politica e terroristica degli anni precedenti. L’estate romana di Nicolini… (Qui Zinga pare sognante, al ricordo). 

 
Io sono un figlio dell’estate romana. E pensare che lo accusarono di aver privilegiato l’effimero. Col cazzo, effimero! Talmente effimero che siamo ancora qui a parlarne. 

 
Ha mai abitato in una città che non fosse Roma?
No. Però ho viaggiato tantissimo, negli anni in cui sono stato segretario dei giovani dell’Internazionale socialista. Per dieci anni. Ho girato il mondo. Incontri pazzeschi. A New York Helen Clark, che sarebbe diventata prima ministra australiana; Martine Aubry, figlia di Jacques Delors, Felipe Gonzales... Shimon Peres. E’ stata un’esperienza incredibile. Una volta in Sudafrica andiamo a casa di Mandela e si mette a ballare con noi. Dovrei scrivere un libro.

 
No, la prego, non ci si metta anche lei. 
In effetti no, uno se po mette’ a scrivere queste cose? Forse fa un po’ tristezza.

 
Ecco. Restiamo sulla famiglia. Stavamo andando bene.
Una famiglia di sinistra. Nessuno dei miei genitori militava in qualche partito, però ti mettevano in mano i libri di Pasolini, di Calvino. Si andava a vedere Dario Fo. E poi però io andavo a sentire Renato Zero.
Non riesco a  immaginarla sorcino.
Sì, sì, assolutamente sorcino. Pure mio fratello Luca. 
Altre passioni?
Giorgio Gaber! Tutto a memoria. Una delle ultime canzoni dice “Non insegnate ai bambini la vostra morale / potrebbe far male / date fiducia all'amore il resto è niente”, è la cosa in cui mi ritrovo molto con la mia famiglia, anche con le mie figlie.

 
Per loro si immagina un futuro romano? O se ne andranno come tutti i giovani di buona famiglia che emigrano come se fosse una città sudamericana?
Io devo metterle nelle condizioni di fare le loro scelte. Anche se leggi la relazione del governatore della Banca d’Italia, abbiamo pochi giovani e scarichiamo su di loro i problemi che abbiamo…
No! Lo sta facendo di nuovo!
Ma noi dobbiamo decidere che cazzo sarà l’Italia tra cinquant’anni! (Si scalda, altri pugni). 

 
Ma è facile: io sono per una riforma putiniana: tenere Draghi alternativamente a palazzo Chigi e al Quirinale per sempre, fino a consunzione. Ma, a proposito di dittature: la sua famiglia è scampata al nazismo. 
Sì, la mia bisnonna Ester fu portata ad Auschwitz e subito gassata. Ma il resto della famiglia si è salvato grazie anche qui a una serie di coincidenze. E’ una storia molto romana. Vengono i nazisti. Arrivano a casa, e mia nonna consegna loro il passaporto dove non c’era scritto che era sposata. Mio nonno l’avevano nascosto in un convento di suore a Monteverde. Loro dunque non trovano chi cercavano, quindi non l’hanno mandata a Auschwitz. 

 
Lei tecnicamente non è ebreo.
No, perché lo era mio nonno, e si è sposato mia nonna grazie a una dispensa della Sacra Rota. Lei non parlava di politica, ma diceva che “dei fascistacci non ci si può fidare”. Infatti poi qualcuno fece la spia: ci vendettero per poche lire. Capisci, se lei non avesse avuto il colpo di genio di dare il passaporto da nubile, avrebbero preso mio nonno e io non sarei qui. Poi lui andò a vivere a piazza Asti, a casa di un parente,  dall’altra parte della città. A Roma c’è una parte di città che esiste per caso.  (Zinga è come se avesse un rapporto fisico con Roma, ne parla come di una specie di mappa umana che conosce a memoria. E anche la sua geografia è politica, non fisica). 


Vedi, questa città è fatta di stratificazioni. C’è la Roma imperiale, poi quella papalina, poi Prati, qui, quella dell’Unità d’Italia, poi la Roma di Petroselli, quella di Nicolini, poi quella di Andreotti, quella delle Olimpiadi, poi gli altri quartieri… Quest’urbanistica o è tenuta insieme da un’idea oppure…”. (A questo punto spunta di nuovo D’Alema, sempre al telefono).

Siete amici?
Beh, proprio amici… abitiamo nel palazzo di fronte. E poi io non sono un rottamatore. 
Ma chi sono i suoi amici veri?
Ah no, questo non lo dico.
Vabbè allora parliamo di Bettini.
Sono molto sorpreso dalle critiche che gli hanno fatto. La narrazione un po’ folkloristica, da parte di tanti nani che fiutano l’aria e poi si schierano…


Però lui è un personaggio bizzarro, no? Il nobile che istruisce i giovani alla politica nel suo cenacolo e poi diventa guru della politica romana…
Era segretario del partito quando io mi iscrissi alla Fgci.
Tornavamo dalle vacanze e mi chiedeva: quanti libri hai letto? 


Altri amici?
No!
Ma perché? E’ legale avere degli amici.
No, non lo voglio dire.
(Allora lo dico io. Uno è Gian Paolo Manzella, lo so io. Intellettuale-dandy-grand commis; ha fatto l’assessore nella giunta di Zingaretti e il sottosegretario nel Conte 2. Scrive poesie. Vive in un loft sopra piazza di Spagna. Poi gliene estorco un altro: Giovanni De Mauro, direttore di “Internazionale”).
Vuoi sapere perché mi piace tanto la politica?  
(Mi prende di sorpresa mentre mangio una carota dal suo pinzimonio).
Io ho iniziato a far politica per l’articolo tre della Costituzione, quello che dice che la Repubblica deve “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. Cioè, non ho nulla contro chi fa politica per altri motivi e altri ideali, ma tu devi rimuovere questi ostacoli! E sai come devi fare? Lo spirito di servizio, come lo chiamava Ciampi. Se li rimuoviamo questi ostacoli sei utile a qualcuno. Altrimenti ti perdi. Invece abbiamo il trionfo dei partiti personali, che durano cinque anni e poi scompaiono. Non è che non hanno senso, figurati, io li rispetto. Ma non rispondono a questa cosa qui. 


La politica lenta: un po’ come il Prodi del semaforo, quello che faceva Corrado Guzzanti.

Ma se guardi la mia biografia io sono stato parlamentare europeo, poi provincia, regione, regione ancora: sono vent’anni di servizio. Peraltro sempre vincendo. L’ultima volta ho spostato il 12 per cento dei voti. Ma ero convintissimo di perdere. Sono tornato a casa da Agnese e Flavia, che erano sveglie, e gli ho detto: preparatevi che papà finalmente vi porta in vacanza. Papà ha perso e vi porta a Parigi! Ero sicuro di aver perso. Infatti per la prima volta siamo andati  a festeggiare tutti insieme, perché eravamo lì che facevamo i bagagli.
Che vitaccia, però. Almeno adesso ci va, in vacanza?
Sui monti, a camminare. In Val Gardena, all’Alpe di Siusi.
Eccitante. Ma parliamo, la prego, di cucina. Almeno un momento. 
Uhm. Sono bravo a fare i sughi, ecco. Su Instagram seguo tre cuochi: Giorgione, che è umbro; Meschini Chef che è romano, e Cucinoperamore che è napoletana. 
Sembra una mappa delle regionali. Però oggi i politici sembrano maledetti dai social... ne vengono come consumati.
Ma non bisogna essere contro la modernità! E’ il pensiero critico che conta! Non si può tollerare gli operai Amazon che lavorano 48 ore di seguito, ma non si può neanche rifiutare il digitale. Il digitale permette oggi immense opportunità. 
Va bene, va bene, chiedevo solo di Instagram!
Noi pendoliamo tra un approccio conservatore alla modernità a un approccio subalterno. O impauriti o subalterni. Ecco, io vorrei essere in mezzo. Vorrei essere il punto di mediazione tra questi due estremi. Se vai su YouTube c’è una cosa di Pasolini favolosa, in cui Pasolini circondato da un gruppo di intellettuali era l’unico che difendeva la televisione contro questi che sostenevano che avrebbe omologato la cultura italiana. Ma che cazzo dite! Diceva Pasolini, perché nelle campagne la tv aveva portato la modernità.
Sento che stiamo per arrivare a Barbara D’Urso. 
Ah! E’ un pezzo della tragedia di questo paese.
Cosa? La D’Urso?
No, la reazione che c’è stata al fatto che io sono andato dalla D’Urso. Prima hanno detto che eravamo la sinistra Ztl, e poi se vado in una trasmissione popolare… E’ uno dei motivi che mi hanno portato ad andarmene…
Addirittura.
Una trasmissione popolare, che invita i leader politici! 
Pare che sia in crisi anche lei, adesso. Una coincidenza? Caduta anche lei per un complotto? Come Conte?
Dài!… Ah, ma aspetta! Eccolo. 
(D’Alema è tornato. Si aggira di nuovo. Questa volta ha una sportina da supermercato). 
Vedi, è andato a fare la spesa. Ora passa a salutare.
(Poi D’Alema si gira e riscompare). Niente. Tirar fuori lo Zinga non politico è impossibile, ho capito. Forse non esiste. 
Mi dica una cosa, una, che le piaceva fare da segretario del Pd.
Dare una mano.
No, dài, una cosa vera.
I calli. Ora se ne sono dimenticati tutti, ma prima delle regionali io mi son fatto centocinquanta comizi. Tu capisci se vinci solo se alla fine ti sono i venuti i calli per le strette di mano. E rollare i manifesti! Sai come si rollano? Bisogna prendere il rullo così e così e poi girarlo così e così…
(D’Alema intanto è tornato a casa, si infila nel portone, e non si è fermato a salutare).

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).