La tirannia della precauzione

Contro la paura del rischio: l'altro vaccino che serve all'Italia

Il rischio zero resterà comunque un'illusione: gli anticorpi arriveranno ma il virus non andrà via

Claudio Cerasa

Smettere di alimentare le illusioni delle imprese zombie, far uscire le piccole aziende dalla loro comfort zone, mettere in moto i capitali per  crescita e acquisizioni. Rischiare è  un’opportunità per tornare a sognare

E' possibile vaccinare l’Italia contro la paura del rischio? In uno splendido articolo pubblicato venerdì scorso sul nostro giornale, David Carretta ha centrato un punto cruciale della fase complicata che sta vivendo l’Europa: la sua avversione al rischio. Se c’è un fallimento dell’Ue sui vaccini, ha scritto Carretta, è essersi piegata alla tirannia della precauzione: “Le classi politiche hanno abdicato al loro ruolo maieutico preferendo inseguire i sentimenti popolari ed evitando il rischio dell’impopolarità”.

 

La tirannia della precauzione è stata dettata dalla volontà di evitare la guerra tra gli stati membri, dalla volontà di disinnescare gli istinti no vax, dalla volontà di non alimentare l’odio contro Big Pharma e il ritardo dell’Europa nei confronti di altri paesi come gli Stati Uniti e l’Inghilterra nasce anche da qui: dall’aver fatto di tutto per rischiare il meno possibile. Non rischiare nulla, naturalmente, non significa non correre rischi ma significa considerare l’eccesso di prudenza come un rischio minore rispetto all’eccesso di azzardo e lo stesso problema, nel suo piccolo, l’Italia dovrà affrontarlo nei prossimi mesi, quando dovrà scegliere in modo speriamo risolutivo da che parte stare di fronte alla domanda delle domande: siamo pronti a rischiare qualcosa per far crescere l’Italia?


In questo senso, il tema della cultura del rischio sarà centrale, per il nostro paese, se si pensa ai prossimi mesi della nostra vita durante i quali vaccini o non vaccini saremo costretti a vivere una stagione in cui il rischio zero resterà comunque un’illusione: gli anticorpi arriveranno ma il virus non andrà via e ci vorrà ancora del tempo prima che il Covid-19 diventi come una normale influenza. “L’eliminazione totale del rischio è un’utopia – ha detto qualche giorno fa sul New York Times l’editorialista David Leonhardt – e l’obiettivo ragionevole di ciascuna società non è eliminare il virus ma è renderlo gestibile”. Il tema della cultura del rischio però sarà centrale anche per altre ragioni che hanno a che fare non solo con la nostra salute ma anche con la nostra economia, con la nostra capacità di ripresa, con la nostra capacità di scommettere sul futuro, con la nostra capacità di ricostruire il paese, e basta mettere in fila alcuni elementi per capire di cosa stiamo parlando. In cima all’agenda del libro mastro della cultura del rischio vi è un tema su tutti: la propensione al risparmio.

 

Draghi lo ha ricordato qualche giorno fa durante il suo discorso alle Camere e il tema resta centrale oggi più che mai: l’Italia, in questi mesi di pandemia, ha messo da parte qualcosa come 160 miliardi di euro di risparmi privati, soldi immobilizzati per paura del futuro, e compito del governo, compito prioritario, sarà quello di ricostruire un clima di fiducia tale da restituire ai cittadini una ragione per rimettersi in gioco, per spendere, per investire e in definitiva per rischiare. La ripresa dell’Italia passa da qui, anche da qui, e passa anche da un secondo elemento cruciale, anch’esso legato al modo in cui l’Italia, e non solo l’Italia, riuscirà a vaccinarsi contro la cultura del rischio. Il tema è delicato e imminente e coincide con la scelta che farà il governo sul tema del blocco dei licenziamenti.

 

La cultura del rischio zero, anche comprensibile in questo caso, ha portato l’Italia a essere l’unico paese europeo ad avere una forma coercitiva di blocco dei licenziamenti (in tutti i paesi i licenziamenti sono stati evitati senza un divieto formale, come invece ha fatto l’Italia, e ciò che hanno fatto gli altri paesi europei, in questi mesi, è stato evitare i licenziamenti o legando il divieto di licenziamento all’uso della cassa integrazione – in Spagna non puoi licenziare nei sei mesi successivi all’utilizzo della cig – o con la moral suasion – in Francia e Germania i tribunali non accettano come legittima causa di licenziamento la causale Covid). E nei prossimi mesi il governo dovrà decidere due cose importanti: in che modo dovrà restituire alle aziende una piena libertà di impresa (articolo 41 della Costituzione: “L’iniziativa economica privata è libera”) e in che modo trovare un buon compromesso fra tutela dei lavoratori e tutela del rischio. Il tema è semplice e potremmo riassumerlo così: per il nostro paese è più rischioso comprimere la libertà di impresa o è più rischioso non fare nulla per provare a guidare l’inevitabile transizione che subirà il mondo del lavoro?

 

Sempre di rischio si tratta, ovviamente, così come sempre di rischio si tratta quando ci si trova ad affrontare un altro tema delicato come quello delle “imprese zombie” (termine di Draghi) e come quello delle imprese troppo piccole per spiccare il volo. Nel primo caso, il rischio di sostenere le imprese zombie è quello di alimentare illusioni all’interno di imprese tecnicamente non fallite ma incapaci di stare in piedi con le proprie forze. Il secondo caso riguarda invece la propensione al rischio delle piccole imprese che in una stagione difficile come quella in cui viviamo dovranno inevitabilmente compiere in molti casi dei passi per combattere lo status quo, per prendere di petto alcuni tabù, per rimettersi in discussione e per uscire dalla propria comfort zone provando a prendersi un rischio non da poco: scegliere di diventare più grandi anche a costo di rischiare qualcosa. E’ un tema che riguarda le piccole imprese, ovvio, e l’illusione che possa essere lo stato imprenditore a migliorare la produttività delle aziende è per l’appunto un’illusione se non si accetta il fatto che le aziende più produttive sono quelle che hanno la necessità di diventare più grandi. Ma è un tema che riguarda anche le aziende più grandi.

 

E mai come oggi il compito delle aziende più importanti del nostro paese dovrebbe essere quello non di difendersi semplicemente dalle avversità del presente ma di investire nel futuro attraverso per esempio aumenti di capitale aventi una finalità per certi versi rivoluzionaria: la crescita e le acquisizioni. Pensate per esempio a un colosso come Generali cosa potrebbe combinare se le sue mosse fossero orientate non soltanto a sostenere la sua italianità ma anche a sostenere le sue acquisizioni in Europa e pensate a cosa potrebbe cambiare nel dibattito pubblico del nostro paese se l’attenzione degli osservatori fosse rivolta non soltanto a cosa l’Italia potrebbe perdere prestando il fianco ai capitali stranieri ma anche a che cosa l’Italia potrebbe guadagnare se mettesse ancora di più i suoi capitali al servizio dell’acquisizione di imprese straniere.

 

Il futuro dell’Italia, nei prossimi mesi, passerà naturalmente dalla capacità del paese di vaccinare più persone possibili nel minor tempo possibile (riduzione del rischio) ma passerà anche da un altro vaccino più difficile da trovare: quello che potrebbe permettere al nostro paese di considerare il rischio non un vizio capitale ma un’opportunità per tornare a sognare.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.