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La parola è d'argento, il silenzio è Draghi: il Pd? Not his business

Salvatore Merlo

Le dimissioni di Nicola Zingaretti non lo riguardano. Il premier tace su tutto. Ma parlerà il 18 marzo

Non si sa nemmeno se è preoccupato ora che i partiti della maggioranza esplodono uno dopo l’altro come i palloncini del tiro a bersaglio nelle fiere rionali. Il presidente del Consiglio che dice? E’ impensierito dalle dimissioni di Zingaretti? Boh. E la verità è che di Mario Draghi non si sa quasi nulla, perché il capo del governo ha deciso di sottrarsi dalla comunicazione così come dalla politica. Resta da chiedersi quanto potrà durare questo stile che è certo una reazione all’epoca recente di Rocco Casalino, facondo padrone di Palazzo Chigi, ma è anche un’insidia. Perdere la lingua all’inizio può essere utile, ma a poco a poco può diventare una una mutilazione. 

  

Tanto per cominciare, di portavoce lui ne ha ben due, Paola Ansuini e Ferdinando Giugliano. Solo che la prima parla poco, mentre il secondo parla soprattutto in inglese. Sicché, come ben si vede, ogni cosa attorno a Draghi è sintomatica. Non vuole fare interviste né conferenze stampa, niente domande, figurarsi se intende consegnarsi a quegli spettacoli horror che in Italia vanno sotto il nome di talk-show. Le conferenze stampa le fanno i ministri competenti in materia, quando illustrano i contenuti dei dpcm. Le riunioni di governo sono riassunte attraverso note ufficiali distribuite agli organi di stampa. Nelle sue intenzioni future ci sono  solo discorsi scritti, pronunciati in luoghi pubblici, in circostanze istituzionali e comunque sempre fuori dal triangolo dei palazzi romani. Il prossimo, in pratica il primo intervento dopo il discorso della fiducia in Senato, sarà il 18 marzo (notizia) a Bergamo, in occasione della  giornata della memoria per le vittime del Covid. E non chiedeteci come abbiamo fatto a saperlo.  La parola è d’argento il silenzio è Draghi. Dunque: shhh.

   

Così il codice emotivo che più o meno volontariamente viene costruito intorno al presidente del Consiglio  prevede l’evocazione di un distacco dalle cose e dalla politica, un rifiuto esplicito nei confronti della comunicazione, destinato a sciogliersi nella più viva speranza di un’era felice, composta di fatti e non di parole, di ripresa economica e di vaccinazione collettiva. In un paese in cui, di solito, si sa, i capi di governo sono esistiti nella misura d’un fluviale susseguirsi di annunci e contro annunci, suggestioni e ritirate, fantasie e invenzioni, ribalderie e veline di cui si alimentava il circo mediatico con  effetto inebriante. Persino Mario Monti ci cascò, e ne fu stritolato.

   

Di fatti il  silenzio pone Draghi al di  sopra. Laico o distante, a seconda delle interpretazioni. Malgrado al di sotto del suo mutismo ogni cosa sia in accelerato movimento, tra  strepiti e spasmi. Accompagnati, non di rado,   da un fracasso di rovina. Infatti esplodono i cinque stelle, e va a fuoco la casa del Pd. E non per ragioni estranee ma proprio perché c’è lui: perché c’è Draghi. Dunque in quindici lasciano il partito di Grillo, perché non vogliono votare la fiducia, e poi ieri al Nazareno si dimette pure Nicola Zingaretti ché il governo come tutti sanno avrebbe preferito non farlo. Così, mentre tutt’intorno gli altri fanno rumore, come direbbe Battiato, ecco che il presidente del Consiglio, muto muto, vara un decreto sui, rinvia le elezioni comunali a Roma e Milano, nomina il nuovo capo della polizia, mette alle strette la commissione Ue sui vaccini. E poi? E poi tace.

   

Se i partiti si rimescolano, si dilaniano e si contorcono, sono affari loro. Lui è altro, e altro vuole restare. E ciò malgrado sia proprio lui che sta portando il subbuglio in Parlamento, dimostrando così che la distanza dalla politica è cosa ben complicata da esercitarsi a Palazzo Chigi, e che insomma la contaminazione se non è già avvenuta è forse inevitabile. Al punto da far dubitare persino alcuni dei suoi consiglieri sull’opportunità di insistere nel coltivare il silenzio come estrema risorsa della comunicazione. E allora vedremo quanto dura. Parlare infatti significa reagire. Persino quando si riceve un calcio si risponde: ahi. Tranne se ci si chiama Mario Draghi.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.