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il foglio del weekend

Contro i fascisti di sinistra

Maurizio Crippa

Lo scorrettismo della destra di questi anni si sgonfierà da solo, ma c’è anche un’altra violenza censoria pericolosa. Perché vuole ripulire e manipolare il linguaggio, togliere la parola, condannare al silenzio

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Ci voleva un’orgia gay per far crollare il sovranismo, si potrebbe dire parafrasando un titolo del Foglio che fece un certo scalpore e che oggi non verrebbe più ammesso. E’ bastata la fuga sui tetti di di József Szájer, eurodeputato orbaniano difensore dei valori tradizionali e nemico delle idee e persone Lgbtq (omofobo, nel neo linguaggio) per mettere in mutande lo scorrettismo della destra che ha dominato questi anni, provando a richiudere  le società aperte. O anche senza mutande. Dopo che Steve Bannon è inciampato negli schiavettoni. Dopo le nebbie padane che stanno inghiottendo i rumori gutturali di Salvini. Dopo la rovinosa uscita di scena di Trump. Dopo la tintura dei capelli colata come una sconfitta sul volto di Rudy Giuliani. Festa da celebrare a metà, e con juicio. Ma l’attenuarsi della minaccia permette di rivolgersi a combattere, ancora una volta a mani nude, contro una minaccia speculare, e forse più feroce perché anziché i ferrivecchi di miti del passato (Dio patria e famiglia) ha in pugno le armi del mercato delle idee, la maggioranza di azionariato dei media, molta parte dei social e dell’accademia. Il fascismo di sinistra.

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Ci voleva un’orgia gay per far crollare il sovranismo, si potrebbe dire parafrasando un titolo del Foglio che fece un certo scalpore e che oggi non verrebbe più ammesso. E’ bastata la fuga sui tetti di di József Szájer, eurodeputato orbaniano difensore dei valori tradizionali e nemico delle idee e persone Lgbtq (omofobo, nel neo linguaggio) per mettere in mutande lo scorrettismo della destra che ha dominato questi anni, provando a richiudere  le società aperte. O anche senza mutande. Dopo che Steve Bannon è inciampato negli schiavettoni. Dopo le nebbie padane che stanno inghiottendo i rumori gutturali di Salvini. Dopo la rovinosa uscita di scena di Trump. Dopo la tintura dei capelli colata come una sconfitta sul volto di Rudy Giuliani. Festa da celebrare a metà, e con juicio. Ma l’attenuarsi della minaccia permette di rivolgersi a combattere, ancora una volta a mani nude, contro una minaccia speculare, e forse più feroce perché anziché i ferrivecchi di miti del passato (Dio patria e famiglia) ha in pugno le armi del mercato delle idee, la maggioranza di azionariato dei media, molta parte dei social e dell’accademia. Il fascismo di sinistra.

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Lontano, ma non molto, dall’Italia la prima Giovanna d’Arco bruciata come una strega dai nuovi inquisitori è J.K. Rowling. La cui vicenda il Foglio ha raccontato lo scorso lunedì. Linciata da anni per aver sostenuto come un’evidenza che i sessi esistono. Ma se anche per tutti gli altri non fosse più un’evidenza – in base al teorema logico attribuito a Duns Scoto “ex falso quodlibet”, se si parte da un enunciato falso si può dimostrare qualsiasi cosa – dovrebbe essere diritto elementare di chiunque poter continuare a pensarlo e affermarlo. Nei dovuti modi cautelativi e inclusivi, che sono quelli di Rowling. Invece non può. A volte il tutto è così forzato da scivolare nel ridicolo. Olivier Betourné, ex direttore delle Editions du Seuil, ha raccontato a Marianne che in alcune scuole catalane hanno tolto dalle biblioteche La bella addormentata perché il bacio del Principe non è consensuale. Non è stato l’arcolaio avvelenato di Malefica, è lui che ha usato la droga dello stupro. Ma non c’è più molto da ridere. Quella che un tempo era la cultura del piagnisteo, il libro di Robert Hughes uscì nel 1993, è diventata violenta aggressione censoria.

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Suzanne Moore, storica giornalista di sinistra e femminista del Guardian, è stata costretta a dimettersi per aver detto più o meno le stesse cose di Rowling. In Italia la faccenda è ancora di nicchia, almeno sui grandi media. Ma quest’estate si è assistito a una campagna di attiviste trans per far espellere dall’Arci l’associazione Arcilesbica, accusata di transfobia perché sostiene che “la sostituzione dell’identità di genere al sesso nuocerebbe alle politiche dedicate ai diritti delle donne”. E basta questo per diventare oggetto di una “azione persecutoria che va avanti da giorni contro l’associazione che viene paragonata al fascismo e fatta oggetto di minacce sessiste”. Non ci si azzarderà nemmeno a entrare nel merito di chi abbia ragione, non è il nostro tema. Il tema è l’emergere, in molti campi del dibattito pubblico, di un atteggiamento dogmatico che vuole tappare la bocca a chi  pensa diversamente. Non solo donne, ma spesso sono donne contro donne.

    

   

Il caso della censura imposta alla fotografa Letizia Battaglia per un servizio pubblicitario per Lamborghini ambientato nella sua Palermo è emblematico. Artista icona della denuncia antimafia, celebre per le sue immagini dolorose di bambine in bianco e nero, tra povertà e passione, questa volta aveva scelto di mettere in primo piano delle giovani donne, posate a una significativa distanza dai bolidi gialli. E’ bastato per scatenare attacchi sfociati nel ritiro delle immagini da parte del committente. Ma le accuse erano per lei: “Riteniamo che la campagna pubblicitaria che hai firmato per Lamborghini riproponga rappresentazioni profondamente sessiste e maschiliste che dobbiamo sanzionare”. Lo hanno scritto le attiviste di Non una di meno. Chiamata a rispondere, davanti a non si capisce bene quale tribunale, Battaglia ha risposto con sdegno: “Non prendo parola con nessuno. Non ho nulla da dire a femministe che non hanno capito le mie fotografie: io sono contro il potere e la società sessista”. Il prezzo pagato è stata la condanna al silenzio. Perché qualcuno si arroga il diritto di stabilire cosa può essere visto e cosa no. “La pornografia è negli occhi di chi guarda”, è stata per decenni la risposta che chiudeva la bocca a qualsiasi critica davanti a immagini che un tempo erano dette “trasgressive”. Il che è spesso vero. In questo caso è molto vero, per coloro che hanno visto la pornografia, il “patriarcato” e il “sessismo” (ma anche il capitalismo, che non guasta mai) nelle immagini di Battaglia. 

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Ci sono i contenuti, a volte anche drammaticamente opposti come capita in ogni società, e ci sono gli spazi della loro espressione, che sono liberi nelle società aperte, e soggetti nel caso alle leggi e non alla guerriglia ideologica. Il 25 novembre Non Una di Meno Torino “ha preso parola e ha organizzato delle azioni simboliche fuori dalla sede della Rai, dell’ordine dei giornalisti e di alcune redazioni locali”. La Stampa e Repubblica, mica Libero di Vittorio Feltri. L’accusa: il sessismo e il raccontare male la violenza sulle donne. Su questo, “ogni strumento di presa di posizione dal basso, come il mailbombing, e tutti gli altri che abbiamo usato e useremo continueranno a essere giusti e necessari”. La leader dell’associazione Giulia Siviero, giornalista del Post, ha scritto a proposito del caso Boldrini vs Mattia Feltri che “non c’è alcuno spazio per avere un’opinione, su questo… Sulla violenza contro le donne non ci possono essere differenti punti di vista”. E questo è  indubitabile. Solo che lì in questione non era la violenza sulle donne, era il giusto spazio in cui esprimere opinioni nel rispetto di regole che esistono. Ma questo a Siviero sfugge. Dice: “Questa è la posta in gioco non negoziabile”. Nemmeno il cardinal Ruini, nei suoi giorni migliori, aveva utilizzato l’espressione “non negoziabile” per chiudere la bocca agli altri: voleva un referendum, cioè una delle pratiche della democrazia. Anche la libertà di espressione non è negoziabile.

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Questa  intolleranza viene dal mondo anglosassone, dalla cultura nata nei college qualche decennio fa e che ha preso il sopravvento negli anni (felici e ambigui) di Obama; che ha prodotto la cancel culture nelle sue varie declinazioni  ed è approdata anche nella nostra periferia dell’impero. Una sorta di suprematismo moralista, che toglie addirittura le parole, praticato dalle “frange  più estremiste di movimenti rivendicativi”, dice Olivier Betournées. “Gruppi a geometria variabile, instabili, che evolvono a seconda della congiuntura”. Una sorta di guerriglia.

 

L’intolleranza correttista forse non è  stata l’ultima causa dell’esplodere dell’anti correttismo della destra – basti pensare alla xenofobia, a tutti i “first” sentiti in questi anni – che ha usurpato in molti ambiti la possibilità stessa di essere razionalmente e pacatamente contro il nuovo pensiero obbligatorio occidentale e la sua  langue du bois. Di stare dalla parte di un Robert Hughes e persino di un Roger Scruton. Critici tutt’altro che codini del Mondo Nuovo di cui Aldous Huxley diceva: “La dittatura perfetta avrà la sembianza di una democrazia, una prigione senza muri nella quale i prigionieri non sogneranno mai di fuggire”.

 

In attesa dell’epilogo di Huxley, oggi abbiamo a che fare con il nuovo fascismo di sinistra. Perché il linguaggio è tutt’altro che uno strumento innocente, e chi ne ha il controllo determina i fatti.  La sinistra fascista, storicamente, fu una cosa diversa e anche più seria della pletora di fessi da tastiera di ascendenza grillina o tardo antagonista che occupa i social, mescolando antirazzismo di maniera e anticapitalismo apodittico, e ovviamente l’imposizione dogmatica dell’accusa sessista.

 

Il fascismo di sinistra, come racconta bene lo storico Giuseppe Palato in un libro di qualche anno fa, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato (Il Mulino), è stata un “fiume carsico” che ha attraversato il Ventennio ed è durata oltre, sospinta da una ideologia totalizzante: “Un forte spirito antiborghese e anticapitalistico, un’idea della politica come rivoluzione, l’obiettivo di una democrazia popolare totalitaria di radice rousseauiana”. Si sentiva “la sola vera custode della rivoluzione fascista… una palingenesi morale, un ‘uomo nuovo’”. Democrazia totalitaria sul modello di Rousseau (ogni riferimento a una piattaforma internettiana che voleva realizzare la democrazia diretta con i soldi di Big Tobacco è volutamente casuale).

   

A quei tempi si usava il manganello. Ora l’arma contundente è il  controllo delle parole. Esiste un linguaggio aggressivo e scorretto? Certo che sì. Anche se a volte i correttivi sono discutibili. E’ il caso dei titoli e articoli di giornale che riportano fatti di violenza sulle donne. Arriverà anche un manuale dell’Ordine dei giornalisti che imporrà ai giornalisti quali espressioni usare. E se è certo ora di finirla con i drammi della gelosia, non poter scrivere che il tale era “depresso” perché viene considerato, anziché un’informazione, una attenuante è cosa diversa. Qualche tempo fa ha fatto alzare i soliti ditini inquisitori il titolo di un quotidiano, “uccide la moglie per gelosia”. Ma a chiunque abbia frequentato la scuola dovrebbe essere noto che “per gelosia” è un complemento di causa: ucciso per rapina, o per futili motivi. E, in giurisprudenza, non è un’attenuante ma un movente. Che la Cassazione ha sentenziato essere sempre una aggravante. Come la pornografia sta negli occhi di guarda, l’imputazione di parola sta in chi legge.

  

Chi vuole ripulire il linguaggio degli altri sconfina spesso nell’abuso di vocabolario. Le parole hanno una storia, e certo anche una decadenza. Si portano dietro significati che durano ed evolvono. Ma l’idea di ripulire tutta la letteratura angloamericana dai suoi nigger, applicando la logica binaria giusto-sbagliato è una violenza alla storia e alle idee. Su questa via, dovrebbe essere rivalutato Daniele da Volterra, famoso come il Braghettone, per aver coperto di veli i nudi di Michelangelo. Se in un certo contesto storico e culturale quei nudi erano diventati scorretti, e offesa a chi li vedeva, ha fatto bene a coprirli. Il deplatforming della Sistina.
 Brian di Nazareth era un film irriverente, ma che pensava più al comico che alla cultura scorretta. C’è una celebre scena, gli zeloti attivisti antiromani chiacchierano seduti. A un certo punto: Stan: “Voglio essere donna”. Reg: “Cosa?”. “Voglio essere donna. E d’ora in poi, voglio che mi chiamiate Loretta”. Jiudith: “Scusa, ma perché vuoi essere Loretta, Stan?”. Loretta: “Voglio avere dei bambini”.  “E’ un diritto di ogni uomo averne, se li vuole”. La conclusione cui giungono gli attivisti della Palestina è questa. Judith: “Sentite, guardiamo in faccia la realtà. Supponiamo di stabilire che lui non possa avere bambini perché non ha l’utero, il che non è colpa di nessuno, semmai dei Romani”. Francis: “Concettualmente parlando, sì. Combatteremo gli oppressori per il tuo diritto ad avere bambini, fratella. Sorello. Loretta”. Oggi i Monty Phiton non girerebbero più quello sketch: perché non fa più ridere. Faceva ridere perché era ritenuto un argomento “strano”. E lo strano è una delle categorie del comico. Terry Gilliam è vecchio, probabilmente se ne fregherebbe, ha detto cose tremende anche contro il MeToo. Chiunque altro non è più autorizzato  a dirlo e anche a pensarlo. Ma il fatto che non abbia più nulla di “strano” non dovrebbe vietare a chi vi trova una non congruenza, nel senso di Duns Scoto, di continuare a pensarlo. J.K. Rowiling dimostra che non è più così. 

   
A volte è più ridicolo. Michela Murgia inventò il “fascistometro” per misurare quanto dovessero essere zittiti gli altri. Ma è più inquietante quando per sostenere la censura contro Leosini per l’intervista a Luca Varani scrive che “ad eccezione del tribunale, nella narrazione di nessun altro reato si lascia al criminale la possibilità di esporre il suo punto di vista pubblicamente… e in questo caso il giudice la aveva già ascoltata”. Negli Stati Uniti intervistarono dozzine di volte anche Charles Manson, rinchiuso nel braccio della morte. Murgia si batte anche per la parità di rappresentanza nelle prime pagine dei giornali e ai convegni con troppi uomini (gli uomini, contriti, poi se pentono e rinunciano al gettone). C’è anche chi ritiene che sostenere la propria causa come mera questione di quote e genere sia dannoso, come dice una donna e intellettuale, un filo preoccupata della deriva, il cui nome sarà taciuto per evitarle lo shit storm rituale. Ma usa la parola  “quotarosismo”, che starebbe rovinando le giuste battaglie che invece dovrebbero puntare su altro che non sul “in quanto donna”.

   
Per quegli strani incontri determinati dai like di altri utenti di Twitter, a volte autentiche serendipity, ho intercettato tempo fa il tweet di una donna, colta, non una professionista dell’informazione, probabilmente originaria di un paese ex comunista. Raccontava di come suo padre subì angherie e ruberie dal capetto locale del partito. Con garbo e un velo di dolore. L’ho rincontrata qualche giorno dopo, scriveva questo: da quando ho raccontato una cosa sul comunismo, non ho mai ricevuto tali e tanti insulti. Abbiamo piegato il ginocchio per George Floyd e contro la violenza razzista, a costo di dover prendere sul serio anche gli eccessi di certe reazioni, seppure non  fino al punto di schierarci con chi voleva abbattere anche la statua di Lincoln.

 

Ma oggi c’è un tipo di fascismo, di sinistra, che mette il ginocchio sulla libertà di espressione e pensiero, e minaccia di soffocarla. A farlo in maggioranza sono i noti imbecilli da tastiera, grillini, antagonisti ed ex “giottini” (li ricordate?) frustrati dalle loro rivoluzioni mai arrivate. Molto spesso si tratta di esponenti della generazione millennial o Z. Spesso appartenenti al demi-monde accademico, un Phd di qui, una pubblicazione là. Quasi mai a Yale o Stanford. C’è forse un motivo profondo, sono la generazione più frustrata della storia, quella che non ha preso il potere. Figlia di padri preoccupanti, i boomer da cui non hanno ereditato neppure le pensioni ma solo l’arroganza ideologica. In politica o in economia non hanno battuto chiodo: si sono fermati a Porto Alegre, sono quelli che hanno celebrato Maradona come se davvero fosse il Che. Gli sono restate le parole, in cui non costa nulla essere massimalisti e risentiti. Intervistata dal Foglio, Suzanne Moore ha concluso dicendo: “Penso che il vento, sotto sotto, stia cambiando”. Meno ottimista di lei, il suo compatriota Chesterton scrisse, 115 anni fa, che sarebbe venuto un giorno “in cui le spade dovranno essere sguainate per poter dire che le foglie sono verdi”. Ma passerà questo gelido inverno. Torneranno le foglie verdi.

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