I governatori nuovi azionisti di un'Italia ad alta velocità. Anche con i soldi del Mes

Claudio Cerasa

Con la progressione della pandemia sono diventati soggetti cruciali per determinare alcune dinamiche della politica nazionale. E potrebbero dire quello che né la maggioranza di governo né l’opposizione hanno il coraggio di dire: basta scemenze

Può piacere come può non piacere, può indispettire come può eccitare, può indignare come può galvanizzare, ma tra le mille rivoluzioni generate dalla convivenza con il Covid-19 ce n’è una, tutta politica, che merita di essere messa in evidenza e che riguarda un fenomeno con il quale ci stiamo trovando a fare i conti più o meno dall’inizio della pandemia. E quel fenomeno potremmo sintetizzarlo così: il brusco e rapido passaggio dell’Italia da repubblica parlamentare fondata sull’attivismo dei sindaci delle città a repubblica parlamentare fondata sulla centralità dei governatori di regione.

 

Può piacere come può non piacere ma i nuovi assetti istituzionali determinati dalla progressione della pandemia hanno dato un contribuito importante all’affermazione delle leadership regionali e l’effetto di questa piccola rivoluzione non è solo aver messo, mai come oggi, nelle mani dei governatori il destino delle proprie regioni, anche a costo di creare un’Italia a più velocità, ma è anche aver reso le figure dei presidenti di regione dei soggetti politici cruciali anche per determinare alcune dinamiche delle politiche nazionali. È un governatore di regione il politico forse in questo momento più importante d’Italia, ovvero Nicola Zingaretti, leader del Pd, che per il momento preferisce restare in regione piuttosto che andare al governo e che è proprio in regione che ha sperimentato l’alleanza tra il Pd e il M5s prima ancora che questa si materializzasse al governo.

 

È un governatore di regione uno dei suoi possibili competitor futuri, non solo Vincenzo De Luca, governatore della Campania, ma anche Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia-Romagna e presidente della Conferenza stato-regioni, a cui fa il filo da tempo anche il partito di Matteo Renzi. È un governatore di regione uno dei possibili competitor futuri della Lega, ovvero Luca Zaia, governatore del Veneto, così come è sempre un governatore di regione, Giovanni Toti, il perno di un piccolo progetto politico di destra, a cui guarda con simpatia anche Mara Carfagna, che è alternativo al modello politico incarnato da Forza Italia. Così come è sul futuro del governatore del Lazio che si sta combattendo a destra la vera battaglia politica per il sindaco di Roma e non è un mistero che la ragione per cui il partito di Giorgia Meloni ha lasciato al partito di Matteo Salvini l’ultima parola sul candidato del centrodestra a Roma è legata al fatto che Meloni considera mille volte più importante per il suo futuro politico avere il veto sul candidato alla regione piuttosto che sul candidato alla Capitale d’Italia. C’entra il potere, ovvio, ma c’entra anche l’improvvisa centralità politica acquisita dai viceré delle regioni.

 

Centralità che non farà altro che aumentare nei prossimi mesi quando i governatori – come fatto da De Luca in Campania – avranno l’ultima parola per restringere nei casi necessari il perimetro della libertà dei propri cittadini. Il nostro amico Sabino Cassese ha probabilmente ragione quando dice che le regioni, per come sono fatte, strutturate e organizzate rappresentano ormai realtà istituzionali anacronistiche e ha ragione quando ricorda che l’Italia farebbe forse bene a seguire la strada imboccata anni fa dalla Gran Bretagna, che in vari passaggi tra il 1949 e il 1969 adeguò la sua legislazione a una presa d’atto successiva a un rapporto presentato nel 1969 dalla “Royal Commission on Local Government”, secondo il quale “i territori di molte autorità erano superati, non riflettevano più i modelli di vita e di lavoro; la divisione tra contee e borghi prolungava una separazione artificiale tra grandi città e loro periferie”.

 

A seguito di questo rapporto, ha scritto mesi fa Sabino Cassese sul nostro giornale, “il governo locale di più antica tradizione, quello britannico, subì un radicale cambiamento con una forte diminuzione del numero degli enti e un conseguente grande aumento delle loro dimensioni, sia in termini di territorio, sia in termini di popolazione” e certamente il professore non ha torto anche quando dice che per l’Italia costituisce una priorità pensare a come riorganizzare l’assetto delle regioni. Ma nell’attesa che la politica faccia i conti con il logoramento della funzione delle regioni, la stessa politica avrebbe il dovere di utilizzare nel miglior modo possibile quel capitale di credibilità, di forza, di centralità e di trasversalità che le regioni oggi incarnano non solo nel rapporto con i propri cittadini (alle ultime regionali tutti i governatori uscenti ricandidati sono stati riconfermati) ma anche nel rapporto con lo stato centrale.

 

 

E ciò di cui oggi l’Italia avrebbe disperatamente bisogno non è, come vorrebbe qualcuno, un’esasperazione dei conflitti tra lo stato e le regioni (a proposito di conflitti: l’articolo 120 della Costituzione consente già oggi all’esecutivo di sostituirsi alle regioni in casi di pericolo grave per l’incolumità, mentre la legge 833 del 1978 assegna al ministro della Salute il compito di intervenire in caso di epidemie, e l’equilibrio trovato oggi tra stato centrale e regioni, con lo stato che fissa i paletti minimi delle restrizioni e le regioni che valutano in che caso rendere i paletti ancora più stretti è un equilibrio che può funzionare a condizione che i governatori non utilizzino i propri poteri restrittivi solo per nascondere la propria inefficienza organizzativa), ma è un attivismo compatto da parte delle regioni nel fare ciò che l’opposizione italiana ancora non riesce a fare: puntellare il governo mostrando con compattezza alla maggioranza le strade che un paese con la testa sulle spalle non può permettersi di non imboccare.

 

E per misurare la capacità delle regioni di muoversi in modo autonomo dalla politica nazionale non basta invocare una maggiore e burocratica e fredda centralità della Conferenza stato-regioni ma occorre concentrarsi su alcuni obiettivi minimi da raggiungere. E in una fase come quella che viviamo il primo obiettivo minimo da raggiungere per i governatori delle regioni è dire quello che né la maggioranza di governo né l’opposizione hanno in questo momento il coraggio di dire con chiarezza: smetterla di perdere tempo con le minchiate e invitare la maggioranza ad attivare con urgenza le linee di credito per le spese sanitarie previste dal Pandemic crisis support, che nel momento in cui scriviamo presentano un tasso di interesse sui dieci anni negativo (-0,12 per cento) e che è evidentemente molto più conveniente rispetto al tasso di interesse positivo (+0,68 per cento) che saremmo costretti a pagare qualora i soldi necessari per le spese sanitarie dovessero essere raccolti emettendo titoli di stato e non chiedendo di attivare quello che un tempo si chiamava Mes.

 

È quello che chiedono i governatori del centrosinistra che guidano l’Emilia-Romagna (Bonaccini), la Toscana (Giani), la Campania (De Luca), il Lazio (Zingaretti), la Puglia (Emiliano). È quello che chiedono i governatori moderati di centrodestra che guidano la Basilicata (Bardi), il Piemonte (Cirio), la Liguria (Toti), la Sardegna (Solinas) e lo stesso chiedeva la scomparsa Santelli (Calabria). Ed è quello che, pur non potendolo dire espressamente, si augurano accada sia i governatori della Lega (Fedriga, Fontana, Zaia, Tesei) sia quelli di Fratelli d’Italia (Musumeci, Acquaroli, Marsilio).

 

La pandemia ha ricordato che, anche in politica, esiste un’Italia a bassa velocità e una ad alta velocità. Per dimostrare di essere azionisti dell’Italia ad alta velocità ai governatori non resta che mettere da parte le scemenze e urlare insieme quello che la politica nazionale non ha il coraggio di dire: per il bene dei nostri figli, per il bene dei nostri malati, per il bene delle nostre scuole, per il bene della nostra sicurezza, per il bene della nostra economia, facciamo tutto ciò che c’è da fare per proteggere l’Italia; e facciamo tutto ciò che c’è da fare per smetterla con le sciocchezze e per prendere subito questi maledetti soldi del Mes, grazie.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.