Fascisti e populisti ovunque. Se lo studioso diventa una star

Marco Tarchi

Il politologo Cas Mudde ha costruito le sue fortune parlando di estrema destra e populismo. Poi ha iniziato a pensarsi più come opinion maker che come ricercatore. Ma allarmismi e censure non porteranno lontano: il pericolo di una nuova caccia alle streghe

Il nome di Cas Mudde non è di quelli familiari al grande pubblico. Ma nel mondo accademico è fra quelli che fanno tremare le vene ai polsi di chi si azzardasse, sfiorando il campo dei suoi interessi di ricerca, a non citarlo con le dovute genuflessioni. E il campo in cui opera questo cinquantatreenne politologo olandese dalla figura imponente, oggi docente nell’University of Georgia, è quello degli studi su due fenomeni tanto malfamati quanto di gran moda: l’estrema destra e il populismo.

 

Dopo aver esordito con una bella tesi di dottorato sul primo di questi due soggetti e con un articolo (The war of words) in cui denunciava la confusione terminologica e concettuale imperante in materia, mettendo in guardia dagli abusi del concetto e dei suoi succedanei (destra radicale, destra estrema e così via), Mudde si è spostato sull’ormai più gettonato tema del populismo, dove ha costruito le sue fortune una quindicina d’anni orsono con un articolo in cui annunciava la venuta di uno “spirito del tempo” populista e poi con un voluminoso saggio dedicato ai partiti che vengono abitualmente inclusi in questa categoria.

 

L’originalità del suo lavoro non era straordinaria, poiché la sua scarna definizione del fenomeno esaminato, collegato a «un’ideologia dal centro debole che considera la società divisa in due gruppi omogenei e antagonisti, “il popolo puro” contro “l’élite corrotta”, e che sostiene che la politica dovrebbe essere un’espressione della volonté générale delle persone» riecheggiava e rimanipolava riflessioni di autori che se ne erano occupati almeno un quarto di secolo prima (l’inglese Margaret Canovan in testa), ma si sa come vanno certe cose in un mondo come quello scientifico, dominato come poche altri dalle leggi del marketing: non conta quel che si dice, ma quando lo si dice. E il momento, con la turbinosa ascesa della Fpö di Haider e del Front national di Le Pen padre, era adatto per procurare fama. Che, con il tempo, si è accresciuta.

 

Fin qui, niente di speciale. Salvo il fatto che la notorietà ha indotto Mudde a pensarsi, da un certo punto, più come un opinion maker che come un ricercatore. E a cominciare ad usare i social media, specialmente su Twitter, come una tribuna da cui intervenire un po’ su tutti gli argomenti politici di spicco, a spiccare giudizi taglienti, a scomunicare commentatori e colleghi non di suo genio. Proponendosi come un ennesimo guru del politicamente corretto e passando dallo studio alla denigrazione degli oggetti dei suoi interessi. C’è chi pensa che questa sua animosità abbia radici psicologiche e risenta dell’avere un fratello, Tim, molto attivo nell’estrema destra olandese (gruppi ultrà del calcio inclusi) per una trentina d’anni, ma anche senza tuffarsi nello scivoloso terreno psicoanalitico resta il fatto che con l’andar del tempo la sua asprezza è andata intensificandosi e si è trasformata in una sorta di spirito di crociata contro tutto ciò che a suo avviso è in odore di “destra radicale”. Come gli stessi partiti della “destra mainstream”.

 

Questa deriva lo ha portato a sbilanciarsi, nel libro Ultradestra, di imminente uscita in Italia per i tipi della Luiss, una cui anticipazione è uscita il 4 ottobre su “Domani”, in alcune affermazioni prive di ogni riscontro nella realtà, che gli servono ad evocare il fantasma di un’Idra dai cento volti pronta a distruggere le fondamenta della democrazia. Si legge, così, di una “permeabilità” alla destra radicale dei Républicains francesi – i cui voti al secondo turno furono essenziali per consentire a Macron di battere Marine Le Pen nel 2017 – e addirittura di un “rigetto dei diritti delle minoranze, dello stato di diritto e della separazione dei poteri” da parte di partiti come la Fpö e la Lega. Insinuazioni che neppure i più diretti avversari politici hanno mai rivolto loro.

 

Questa forma di demonizzazione, un tempo riservata ai gruppuscoli neonazisti o neofascisti, viene così estesa alle forze politiche che, come «i socialdemocratici danesi e il Partito popolare spagnolo» non praticherebbero rigorose chiusure verso gli appestati populisti. Per non parlare di intellettuali non allineati come Alain de Benoist e la sua nouvelle droite, dipinti come gli ispiratori di correnti identitarie e “nativiste” che oggi costituirebbero la sola vera minaccia agli ordinamenti democratici.

 

Dato l’ascendente di cui Mudde gode nell’intelligencija accademica progressista, giudizi come questi rischiano di produrre una nuova caccia alle streghe, con i suoi inevitabili risvolti censorii e un ulteriore giro di vite contro quel poco di pluralismo culturale che ancora è consentito nelle aule universitarie in Europa. Non è un caso, del resto, che a prefare l’edizione italiana del volume citato sia la principale promotrice dell’appello che, due anni e mezzo fa, un gruppo di “intellettuali militanti” lanciò per impedire che si tenesse, alla milanese Fondazione Feltrinelli, un incontro di studio che aveva de Benoist come protagonista. C’è chi continua a pensare che allarmismi e censure siano l’arma migliore per sbarrare la strada agli avversari, rifuggendo il confronto delle idee. Spacciare questo atteggiamento per una difesa dei principi democratici è, prima ancora che una mistificazione, un triste controsenso.

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