Perché Salvini non può gioire a squarciagola (e un po' pure Meloni)

Maurizio Crippa

La spallata del Capitano è solo un’altra lussazione, il Sì populista non è spendibile. Urgono nuove idee

Ci sarà tempo per valutare con attenzione se per Matteo Salvini risulterà meno digeribile la mancata spallata alla rossa Toscana, che si è trasformata in una nuova lussazione, dopo quella rimediata in Emilia-Romagna con Lucia Borgonzoni, mentre Susanna Ceccardi ha già augurato buon lavoro a Eugenio Giani. Oppure se peserà di più l’impossibilità di celebrare e spendere politicamente la vittoria del Sì, della riforma costituzionale che era “sua” ma che adesso è soprattutto di Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti, i suoi avversari diretti. La sconfitta in Toscana è tutta sua, ma appartiene in fin dei conti ai dati di fatto: la spinta propulsiva per conquistare le regioni del centro (e sud) si è arenata, se mai era partita. L’impossibilità di capitalizzare la vittoria del Sì ha invece una sfumatura più politica e insidiosa.

 

Nella Lega si era evidenziato un dissenso, i No di Giorgetti e Fontana, e che fosse dissenso vero o un gioco delle parti per occupare entrambi gli schieramenti ha segnalato una debolezza strategica o anche psicologica: Salvini sa che il taglio, che ora gli procurerà anche noie da gestire con i suoi perdenti posto, è per lui ormai solo una bandierina che segnala un posizionamento passato. Ora dovrà trovarne un altro, o trovare modo di dar seguito a quella che per la Lega doveva essere la prima delle grandi riforme (potrebbe rispolverare un po’ di autonomismo, si dice). Un discorso analogo, seppure più sfumato, si potrebbe fare per Giorgia Meloni. Il suo Sì al referendum è stato un po’ depotenziato negli ultimi giorni da un ragionamento politicistico, l’ipotesi del No utile a dare un colpo al governo.

 

Ma anche in Fratelli d’Italia si sono viste posizioni contrarie, per principio e non per tattica, come quella di Guido Crosetto, esponente di spicco e di scuola moderata liberale, che segnalano una non uniformità sui temi cari al populismo. Cose su cui anche Meloni dovrà riflettere. La vittoria del centrodestra nelle Marche è comunque sua, e non di Salvini, e questo è un punto a favore della leader di FdI. Però è sua anche la sconfitta di Raffaele Fitto (stando agli exit poll) in Puglia, segno che la forza territoriale della destra nazionale deve ancora fare molti allenamenti prima di essere vincente. Dire che Silvio Berlusconi, che ha criticato la riforma in quanto inutile e populista ma ha lasciato libertà di voto al suo partito, sia l’unico leader del centrodestra uscito guarito può essere ovviamente solo una battuta. Ma, assieme alla vittoria larga in Liguria di Giovanni Toti, il non aver schierato le truppe in battaglia suona a conferma di un ruolo di ancoraggio moderato alla linea della continuità di legislatura che al centro-destra nel suo insieme non può fare che bene. Sconfitta di Fitto a parte, per Meloni la possibilità di mantenere la rotta intrapresa con Fratelli d’Italia appare più semplice, e le stelle dei sondaggi restano con lei.

 

La strada di Salvini è più accidentata. Il plebiscito (ancora una volta) annunciato di Luca Zaia in Veneto non può essere rivendicato come una vittoria di partito, se non a costo di qualche contorcimento retorico di Attilio Fontana (“Dualismo con Salvini? Assolutamente no”). Già nel 2015 il Doge aveva battuto il partito con la sua lista personale, 23 per cento contro il 17 della Lega, ma stavolta si annuncia, negli exit poll, di portata storica: 45 contro 15, in un totale che fa 73 per cento. Zaia è un governatore che si tiene da sempre lontano dalla politica nazionale e anche dalle dialettiche interne alla Lega, ma il suo autonomismo, che guarda ai benefici dell’Europa, è come si sa distante dal nazional-sovranismo del Capitano. E i veneti hanno scelto lui. Analogo risultato sembra profilarsi il Liguria, dove la Lega non è andata troppo bene, e il governatore invece sì. Ci sarà tempo per valutare, ovviamente. La prima impressione è che per Matteo Salvini, e in parte anche per Giorgia Meloni, la spinta rivoluzionaria basata sulle posizioni anti europee e sovraniste abbia raggiunto il suo apice, e ora servano altre ricette: non per forza ispirate al moderatismo d’antan, ma in grado di intercettare elettori che guardano con realismo alla soluzione dei problemi (non sono ad esempio disposti a rottamare le buone amministrazioni di sinistra, fatto salvo il misterioso caso del populismo alla pugliese di Emiliano) e ai risvolti complessivi delle scelte politiche. Il Sì al referendum ha vinto, ma è una bandiera che si può già ammainare, non sarà la forza propulsiva per altre spallate.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"