Roberto Gualtieri, Teresa Bellanova, Giuseppe Conte, Roberto Fico, Elena Bonetti e Nunzia Catalfo suonano con la Banda Rulli Frulli per un'iniziativa benefica (foto Roberto Monaldo / LaPresse)

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza

Al Recovery serve una terapia intensiva

Claudio Cerasa

Molti obiettivi giusti, molte promesse sagge, molti sogni da sballo ma al fondo zero progettualità, zero visione e zero numeri. Il governo presenta le linee guida sui fondi europei e ci sono ragioni per essere preoccupati (copiare da Macron, merci)

Quando ieri pomeriggio il premier ha presentato ai presidenti di Camera e Senato le linee guida contenenti gli obiettivi fissati dal governo per costruire i progetti legati al Recovery fund – 191,4 miliardi, di cui 63,8 di sovvenzioni e 127 di prestiti – siamo andati a spulciare con curiosità le idee dell’esecutivo, ma la lettura delle trentotto pagine del “Piano nazionale di ripresa e resilienza” offre molte ragioni per essere più preoccupati che ottimisti, anche a chi come noi ha occhi ben intenzionati. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza presentato dal governo doveva essere, così ha detto a questo giornale giusto una settimana fa il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, un documento simile a quello che dieci giorni fa ha presentato Emmanuel Macron in Francia.

Ma il confronto con quel testo, purtroppo per il governo italiano, è un confronto che risulta impietoso. Macron ha presentato un piano da 100 miliardi finanziato al 40 per cento dal Recovery fund costruito per progettare la Francia dei prossimi dieci anni e articolato in settanta misure chiare suddivise in tre grandi capitoli: transizione ecologica, competitività e coesione sociale. Ciascun capitolo, descritto da Macron, aveva la caratteristica di essere ben definito sia nelle spese macro (30 miliardi per la transizione ecologica, 35 miliardi per le politiche industriali, 35 miliardi per la coesione e la sanità) sia nelle spese micro (le ultime due pagine del piano contenevano una tabella con voci di spesa già definite per ogni singolo intervento). E se vogliamo, il dato più impressionante e più sconfortante del progetto presentato dal governo italiano è proprio questo: molti obiettivi giusti, molte promesse interessanti, molti sogni da condividere ma zero progettualità, zero visione e soprattutto zero numeri.

Le abbiamo lette con attenzione le trentotto pagine, abbiamo cercato con curiosità qualche numero legato al futuro ma alla fine gli unici numeri scritti nero su bianco sono quelli che riguardano gli obiettivi. Per esempio, “raddoppiare il tasso di crescita dell’economia italiana portandolo dalla media del +0,8 per cento dell’ultimo decennio ad un livello in linea con la media europea dell’1,6 per cento” (dato tra l’altro sbagliato: la media dell’ultimo decennio dell’Italia è + 0,2) . Per esempio, “aumentare gli investimenti portandoli al 3 per cento del pil”.

Per esempio, conseguire un aumento del tasso di occupazione di 10 punti percentuali salendo dall’attuale 63 per cento dell’Italia al 73,2 per cento dell’attuale media Ue”. Gli obiettivi sono magnifici – chi non vorrebbe più pil per tutti? – ma sono obiettivi ai quali il governo ha scelto di non affiancare alcun dato, alcuna previsione di spesa, alcun progetto concreto.

Ovvio: siamo felici e persino entusiasti nel sapere che il governo utilizzerà come base di partenza dei propri progetti le splendide raccomandazioni consegnate all’Italia dalla Commissione europea (“ridurre gli ostacoli alla concorrenza, in particolare nel commercio al dettaglio e dei servizi alle imprese”; “migliorare l’efficienza della Pa”; “ridurre la durata dei processi civili in tutti i gradi di giudizio”; “promuovere modalità di lavoro flessibile e di sostegno attivo all’occupazione”) e non c’è dubbio che avere una fune d’acciaio attaccata alle imbracature è una garanzia che per quante stupidaggini si possano fare alla fine il paese se la caverà.

Ma allo stesso tempo bisognerebbe anche essere consapevoli del fatto che un governo che intende prepararsi alla sfida della vita, così l’ha definita il presidente del Consiglio, con un atteggiamento diverso rispetto a quello di chi compila una lista della spesa non può permettersi di offrire l’impressione che ha offerto ieri: quella di voler privilegiare, rispetto all’utilizzo dei fondi europei, più la logica della distribuzione del presente, un po’ a me un po’ a te, che la logica della visione del futuro.

Il problema dell’Italia, al contrario di quello che si potrebbe credere, non è tanto quello di essere in ritardo nella definizione dei progetti – i piani definitivi dovranno essere presentati ad aprile 2021, i primi stanziamenti non arriveranno prima del giugno 2021, anche se i paesi membri potranno chiedere un anticipo per il 2021 pari al 10 per cento dell’importo complessivo di sovvenzioni e prestiti previsti per la prima fase del Recovery fund – ma è quello di essere in ritardo nella definizione delle urgenze.

E con tutto il rispetto per i ministri definire le urgenze non vuol dire, come fatto ieri, annunciare attenzione alla “digitalizzazione”, “all’innovazione”, alla “rivoluzione verde”, alla “transizione ecologica”, alle “infrastrutture per la mobilità”, all’“equità sociale, di genere e territoriale” ma vuol dire avere chiaro quali sono gli obiettivi primari (competitività, produttività, efficienza), vuol dire avere chiaro che gli obiettivi primari sono fuffa se non vengono agganciati a voci di spesa (copiare Macron, no?) e vuol dire avere chiaro che non ci sarà alcuna resilienza del paese senza offrire ai cittadini e agli investitori un messaggio diverso dal “fidatevi di noi, perché gli altri sono peggio”.

Due giorni fa, nel suo rapporto mensile, l’Associazione bancaria italiana (Abi) ha calcolato di quanto siano aumentati, tra conti correnti, certificati di deposito e pronti contro termine, i depositi degli italiani rispetto a un anno fa. Risultato: a giugno, i depositi degli italiani ammontavano a più 93 miliardi di euro rispetto all’anno prima. Ad agosto, i depositi degli italiani ammontavano a più 110 miliardi rispetto all’anno prima. L’Italia, e il governo lo sa bene, ha bisogno di ritrovare fiducia. Ma ritrovare fiducia senza avere chiare le priorità è come, nel calcio, annunciare una campagna acquisti senza avere idea di quali giocatori acquistare. È ora di una terapia intensiva per il Recovery d’Italia.

Di più su questi argomenti:
  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.