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“Si cambia allenatore per non cambiare squadra”. Celotto lascia il ministro Grillo

Valerio Valentini

La rottura non s’è consumata su un singolo argomento. C’erano divergenze sulle richieste da avanzare al ministro Tria e sul rispetto agli incarichi interni al ministero

Roma. Agli amici che lo hanno chiamato per chiedergli cosa avesse intenzione di fare, ora, ha risposto sorridente: “Per prima cosa correrò la mezza maratona di Roma, domenica”. Indifferenza di maniera, uno sfoggio d’atarassia che in verità tradisce un po’ della delusione che Alfonso Celotto deve pure provare, dopo avere abbandonato l’incarico di capo di gabinetto della ministra della Salute, Giulia Grillo. E infatti un altro resoconto di corridoio racconta di uno sfogo più franco, più amaro: “Quando una squadra non gira, la prima cosa che si fa è cambiare allenatore”. Illudendosi, magari, che tanto basti. Del resto, “le incomprensioni”, raccontano ora i tecnici del ministero, cominciavano a essere troppe. E Celotto lo aveva sempre messo in chiaro: “I funzionari non si legano ai politici giurando eterna fedeltà. Quando le divergenze si fanno troppo evidenti, meglio prendere strade diverse”.

 

E lui, almeno per adesso, pensa a quelle della Via Pacis, nella Capitale. La passione per la corsa è reale. Boston, Londra, New York, Firenze: Celotto ne ha collezionate tante, di maratone: uno svago per certi versi rappresentativo del personaggio, insofferente alla stasi, curioso per natura e ipercinetico per necessità, se non per ambizione. Napoletano di Castellammare di Stabia, classe ’66, dopo un inizio di carriera in Banca d’Italia, Celotto ha scelto la via dell’avvocatura e dell’insegnamento, fino a ottenere, all’inizio del nuovo millennio, la cattedra di ordinario di Diritto costituzionale a Roma Tre. L’avvicinamento al Palazzo s’è concretizzato solo in tempi più recenti: e lui, laureatosi in Giurisprudenza nell’anno della caduta del Muro, ha saputo rimanere trasversale e irrinunciabile negli anni in cui la Seconda Repubblica iniziava il suo contorcimento. Nel 2006 capo del legislativo nel ministero delle Politiche Ue con Emma Bonino, poi per quello della Semplificazione con Roberto Calderoli, e poi Tremonti, e poi Barca, quindi Trigilia e infine Gozi. Sempre affabile nei modi, sempre scrupoloso: una precisione “più da svizzero che da napoletano”, un po’ come il Ciro Amendola protagonista del suo primo romanzo.

 

Coi Cinque stelle l’intesa è andata maturando in modo graduale, ma quando nell’aprile del 2017 accetta di conversare sulle potenzialità della democrazia diretta con Danilo Toninelli, una certa sintonia sembra già esserci. “Li sgrosserà un po’”, disse un ex ministro con cui aveva collaborato quando venne ufficializzato il suo incarico di capo di gabinetto della Grillo. Ma lì l’armonia durò poco. I vaccini, certo: ma la rottura non s’è consumata su un singolo argomento. C’erano divergenze sulle richieste da avanzare al ministro Tria in vista della manovra, c’era disaccordo rispetto agli incarichi interni al ministero. C’è che quando viene meno la reciproca fiducia, in un rapporto che fiduciario lo è per sua natura, meglio fermarsi. E così è stato. Un comunicato stringato – “e però vergato col bilancino”, dice chi ha assistito all’atto – e poi il congedo. Cordiale, nonostante tutto. Nuovi incarichi, ora? Può darsi. “Prima, però, la mezza maratona”.

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