Massimo D'Alema (foto LaPresse)

La riforma del conte Max

David Allegranti

Dopo il no al referendum, ieri è stata approvata la nuova riforma costituzionale D’Alema-Quagliariello. Promessa rispettata. Sei fantastici mesi di fiction raccontati con una fiction

“Se vince il No al referendum, in questa legislatura, c’è il tempo per fare una riforma limitata, chiara. Si può fare una riforma di tre articoli. Articolo 1: si riduce il numero dei deputati e dei senatori, con 400 deputati e 200 senatori. Articolo 2: fine della navetta e sì al sistema americano, se una legge è emendata c’è un comitato di conciliazione che predispone un testo conclusivo su cui c’è un voto finale. Articolo 3: il rapporto di fiducia del governo è solo con la Camera dei deputati. Quanto ci vuole per approvarla? Sei mesi”

Massimo D’Alema, Catania, 30 agosto 2016

 


 

Roma. “Il treno delle riforme non passerà per altri 40 anni. Dimostriamo che i treni circolano”. Con queste parole Massimo D’Alema aveva anticipato, a ottobre, la presentazione di una riforma costituzionale alternativa a quella Renzi-Boschi bocciata nel dicembre scorso. L’ex premier è stato dunque di parola: il giorno dopo la sconfitta di Renzi e le immediate dimissioni del governo presieduto dall’ex sindaco di Firenze, D’Alema si è messo al lavoro, come i lettori del Foglio ben ricorderanno, insieme a Gaetano Quagliariello. Per un mese di fila si sono trovati tutte le mattine nella sede della Fondazione ItalianiEuropei, dove il cellulare Vodafone di D’Alema prende molto bene. Per l’occasione, l’ex presidente del Consiglio ha rinunciato alla sua normale attività internazionale, compresa quella di presidente della FEPS, Foundation European Progressive Studies. Niente viaggi negli Stati Uniti e in Iran, e manco un fine settimana a Gallipoli. 

 

Ieri la riforma, dopo settimane di estenuante dibattito parlamentare, è stata finalmente approvata, anche se non è riuscita a raggiungere la maggioranza dei due terzi. Servirà dunque un nuovo referendum costituzionale per confermarla, identico a quello del dicembre scorso. “E ora Renzi il buffone a casa!”, ha twittato Gasparri. “Maurì ma che te scrivi, Renzi non è più capo del governo da mo!”, gli ha risposto @OrdaTonante76, un simpatico giovanotto che nella bio dice seguire “le dinamiche della politica” e apprezzare “l’Arma dei carabinieri”. Renzi peraltro, dopo il ritiro in California per un anno sabbatico, si è pure cancellato da Twitter, lasciando i renziani allo sbando. Dopo la vittoria del No, quelli che un tempo erano bersaniani e poi renziani sono diventati seguaci di D’Alema mentre i turborenziani sono rimasti in cinque, e nel partito non contano più niente. Anzi, sono emarginati. Dario Franceschini è naturalmente diventato dalemiano, anche Matteo Orfini è tornato nella casa del padre – s’è pure tagliato la barba e fatto crescere solo i baffi – e il Giglio magico s’è dimesso in blocco. Renzi ha trovato lavoro come responsabile comunicazione per l’Europa di Elon Musk (un giorno, durante una conference call, gli ha pure detto di stare sereno, ma Musk non ha capito bene che cosa volesse dire, complice anche qualche difetto di pronuncia rignanese; Luca Lotti, che ha seguito Renzi in questa nuova avventura, s’è limitato a sorridere).

  

Per un mese D'Alema e Quagliariello si sono trovati tutte le mattine nella sede della Fondazione ItalianiEuropei

Pippo Civati ha festeggiato l’approvazione della riforma costituzionale con un post sul suo blog: “La riforma popolare e popolana contro il popolo del non popolo”. Tripudio di like e condivisioni. Antonio Ingroia, rinvigorito dall’approvazione della riforma, ha subito aperto un comitato referendario a casa sua, chiedendo la cortesia di non farlo uscire di casa ché altrimenti poi si stanca. Davide Zoggia ha mandato una nota all’agenzia ANSA per dire che “confida nel buon senso degli italiani per approvare questa riforma costituzionale”. Lapidario il commento di Berlusconi (Forza Italia stavolta ha votato contro le riforme e annuncia una campagna d’astensione). “Siete ancora oggi, e come sempre, dei poveri comunisti!”. 

 

D’Alema e Quagliariello, invece, hanno brindato con una bottiglia di Pinot nero da 33 euro e 50 de La Madeleine, l’azienda vinicola dalemiana (piccolo dettaglio: Quagliariello ha dovuto pagarla di tasca sua all’enoteca sotto casa). Insomma, adesso è tutto pronto. La riforma c’è e il referendum pure. La riforma nata come D’Alema-Quagliariello e poi diventata Civati-D’Alema-Gasparri-Quagliariello, passata anche grazie a una parte dei voti del Partito democratico, prevede l’elezione a suffragio universale e diretto, nonché la riduzione del numero dei deputati, dagli attuali 630 a 400, 8 dei quali vengono eletti nella circoscrizione Estero. “Sono eleggibili a deputati tutti gli elettori che nel giorno delle elezioni – scrivono i riformatori nonché riservisti della Repubblica – hanno compiuto i venticinque anni di età. La ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni, fatto salvo il numero dei seggi assegnati alla circoscrizione Estero, si effettua dividendo il numero degli abitanti della Repubblica, quale risulta dall’ultimo censimento generale della popolazione, per trecentonovantadue e distribuendo i seggi in proporzione alla popolazione di ogni circoscrizione, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti”. Il Senato della Repubblica, invece, “è eletto a base regionale, salvi i seggi assegnati alla circoscrizione Estero. Il numero dei senatori elettivi è di duecento, quattro dei quali eletti nella circoscrizione Estero. Nessuna Regione può avere un numero di senatori inferiore a cinque; il Molise ne ha due, la Valle d’Aosta uno. La ripartizione dei seggi tra le Regioni, fatto salvo il numero dei seggi assegnati alla circoscrizione Estero, previa applicazione delle disposizioni del precedente comma, si effettua in proporzione alla popolazione delle Regioni, quale risulta dall’ultimo censimento generale, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti”. Ma la vera novità introdotta dalla riforma, vero sballo democratico, è la cosiddetta commissione paritetica di conciliazione, simile a quella che c’è negli Stati Uniti, che entra in funzione “qualora la Camera che esamina per seconda la proposta di legge apporti modifiche al testo”. Duro il commento del costituzionalista Stefano Ceccanti, secondo cui il modello di risoluzione dei conflitti, una sorta di terza Camera che salta le prime due, è stato “preso da una forma presidenziale che non contempla il rapporto fiduciario che non è neanche scritto in termini di articolato né costituzionale né regolamentare dimostrazione del fatto che non ci credono nemmeno loro. Nel caso italiano la maggioranza, se si forma, è oggi tale in entrambe le Camere e deve trovare un punto di equilibrio al suo interno: altrimenti il Governo rischia. O lo trova, ma allora è inutile creare una sede diversa, o non lo trova e anche qui la sede diversa non serve. Nel caso americano, invece, non essendoci il rapporto fiduciario si tratta di trovare un’intesa tra i vertici delle due maggioranze spesso diverse. Non c’entra niente”. D’Alema, per tutta risposta, ha spiegato in un’intervista al Corriere, che Ceccanti è solo un “professorone” che stenta a vedere il disegno più ampio che c’è dietro la “terza camera”: “Questo meccanismo permette lo snellimento dell’iter di approvazione delle leggi, un miglioramento della qualità della produzione legislativa, tempi certi di approvazione delle leggi e potrebbe divenire un rilevante mezzo per limitare l’abuso della decretazione d’urgenza e al ricorso sistematico (e patologico) alla questione di fiducia su maxi emendamenti. Ma non stento a credere che Ceccanti faccia fatica a comprenderlo, diciamo”. Adesso arriva la parte più complicata: il voto popolare. D’Alema ha già annunciato che andrà ovunque, tv, radio, farà comizi, per spiegare che la riduzione dei costi della politica è l’unica via per battere i populisti. Il Foglio gli ha già ricordato, nell’intervista della scorsa settimana, che Renzi ha perso anche per questo motivo il referendum, per la bulimia televisiva. La pagina Facebook “Tutto D’Alema baffo per baffo”, gestita ufficiosamente dall’ufficio comunicazione del Conte Max (coordina Daniela Reggiani, coadiuvata da Fabrizio Rondolino, che ha riscoperto il fascino segreto del dalemismo), ha già avviato una campagna elettorale in perfetto stile renziano: foto di Renzi e scritta #ciaone, con tanto di hashtag. D’Alema, invece, compare in tutte le foto celebrative (ce n’è anche una per il ritiro di Ibrahimovic, che improvvisamente, dopo l’ultimo infortunio, ha deciso di lasciare il calcio: “ONORE A DUE GRANDI BOMBER”, da una parte Max, dall’altra Ibra, entrambi con sguardo sfidante rivolto verso il cielo).

  

"Ci fidanziamo, come Senato, all'intero Paese, oltre che al Cnel, che resta sempre vivo nel nostri cuori e dentro Villa Lubin" (Grasso)

Rischia insomma di essere un bis della campagna elettorale che ha portato alla sconfitta Renzi, ma D’Alema ha già detto “me ne frego, non so se ben mi spiego, diciamo”. “Io sono decisamente più simpatico dell’ex sindaco di Firenze. E non ho chili di troppo, diciamo”. D’Alema, subito dopo il voto di ieri, ha spiegato a Velina Rossa di essere disponibile a ricandidarsi alle prossime elezioni politiche. “Il renzismo, autobiografia di una nazione, è stata solo una breve e sfortunata parentesi, diciamo”. Bersani, tornato segretario del Pd per acclamazione, teme per il proprio destino politico. D’altronde non è la prima volta che D’Alema combina qualche scherzetto ai propri compagni di partito. Ne sa qualcosa il compianto Alessandro Natta, che fu rottamato dalla segreteria di giovani, arrembanti e rutilanti quarantenni comunisti capeggiati proprio da D’Alema. “Il partito di Grillo adesso ci dica che cosa vuol fare”, ha spiegato Bersani. “Se vuole battere la mucca nascosta nel camino o se preferisce tenere le uova sugli occhi”. 

 

Il testo era stato approvato in prima lettura il 14 febbraio al Senato, relatore Quagliariello che per l’occasione aveva ricordato di aver “molto sofferto quando Matteo Renzi aveva voluto sostituirmi con Maria Elena Boschi. Ora però sono contento di aver fatto il bene del Paese”. Anche il Presidente del Senato Pietro Grasso aveva espresso i suoi rallegramenti: “Votare questa riforma il giorno di San Valentino esprime il nostro amore per il Paese. Ci fidanziamo, noi come Senato all’intero Paese, oltre che al Cnel, che resta sempre vivo nel nostri cuori e dentro Villa Lubin”. Il testo era poi stato approvato alla Camera il 2 marzo, relatore Bersani, che aveva ricordato un anniversario fondamentale: “Oggi sono esattamente 100 anni dall’abdicazione dello zar Nicola II, prodromo della grande rivoluzione bolscevica di ottobre. E’ come se oggi noi facessimo piazza pulita del vecchio regime renziano, in attesa della grande palingenesi della rivoluzione socialista cara al compagno Enrico Rossi da lui brillantemente anticipata nel Governo della Toscana”. Il testo poi era stato confermato dal Senato il 15 marzo, dove il relatore Quagliariello (di nuovo) aveva sottolineato: “Finalmente vengono riconosciuti in noi i nuovi costituenti, l’élite preparata e decisa che subentra ai vari D’Alimonte, Fusaro, Vassallo, Caravita che avevano proposto un testo incoerente e illeggibile”. Nella lettura finale di ieri il relatore Bersani (di nuovo), richiamando quel giudizio di Quagliariello, ha così concluso: “Questa riforma è incomparabilmente migliore di quella battuta il 4 dicembre. Guai a chi dice che nella notte tutti i pedalò sono neri”.

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.