Renzi1 vs Renzi2: come sono cambiate le mozioni congressuali per la conquista del Pd

Lorenzo Borga

Dal 2013 al 2017 si modificano le posizioni sull'Ue (poco) e sul modello di partito: welfare, economia e proposte concrete. Un confronto

Il weekend del Lingotto a Torino ha centrato il suo obiettivo: modificare a favore di Matteo Renzi il frame entro il quale si sviluppa il dibattito pubblico. Nell’ultima settimana si è parlato sempre meno dell’inchiesta Consip e di Tiziano Renzi, per dare invece spazio alle primarie ed alle polemiche in Parlamento. La kermesse torinese è stata l’occasione per imprimere una svolta alla comune percezione su Renzi ed il suo stile di leadership. I giornaloni che hanno titolato “Renzi, leader col trolley, passa dall’io al noi”, come il Corriere della Sera, sono fonte di ossigeno fresco per la propaganda renziana arrivata a pezzi al 4 dicembre. Obiettivo centrato dunque, non senza sforzi se è vero – come ha riportato l’Huffington Post – che il leader appena sceso dal palco dopo il discorso di venerdì ha affermato: “Ho appena tenuto il discorso più noioso della mia vita”. La comunicazione appare cambiata, come pure l’approccio – oggi più collegiale, e non potrebbe essere altrimenti vista la batosta del referendum -, ma le proposte concrete sono davvero state modificate? Una domanda cruciale, per assicurarci che il cambio di paradigma promesso al Lingotto sia concreto e non solo una mera strategia di comunicazione.

 

Il metro di paragone più efficace è il raffronto delle mozioni congressuali presentate dal comitato di Matteo Renzi per la conquista del partito, nel 2013 e ieri nel 2017; Renzi1 e Renzi2 a confronto. Prima di tutto un dato di quantità: la mozione congressuale di quattro anni fa conta 18 pagine, quella pubblicata ieri più del doppio. Ed in effetti l’approfondimento ed il grado di dettaglio delle proposte concrete ne guadagnano parecchio rispetto al passato, quando la mozione assomigliava più ad un discorso a braccio del candidato piuttosto che a un vero documento programmatico. La cura Martina c’è e si vede.

 

Indicativo è anche l’ordine dei temi, a partire dall’Unione Europea. Se nel 2013 la visione europea e le proposte di maggiore integrazione occupavano l’ultimo capitolo della mozione, oggi sono saliti fino alle prime pagine di apertura. Opera del professor Sergio Fabbrini, impegnato in prima persona nella definizione del programma. Quattro anni fa la retorica si scagliava contro l’austerity e la subalternità culturale nei confronti di Bruxelles, proponendo d’altronde alcuni passi d’integrazione politica come l’elezione diretta del Presidente della Commissione ed un rafforzamento dei poteri del Parlamento, verso gli “Stati Uniti d’Europa”.

 

Oggi invece spicca la proposta dell’Unione a più velocità, tra un’area a semplice integrazione economica ed un’altra destinata ad un’integrazione politica sempre maggiore, con un’elezione diretta del Presidente e contestuali primarie transnazionali per il candidato del Partito Socialista Europeo. Ma si va oltre: viene proposto con chiarezza di ridurre “l’area delle decisioni intergovernative” e di modificare i trattati per escludere dal Patto di Stabilità e Crescita gli investimenti nazionali in sicurezza, ricerca e cultura. Trova posto anche l’Europa sociale, con l’assicurazione europea contro la disoccupazione, portata al tavolo delle trattative alcuni mesi fa dal Ministro Padoan. Sull’Unione Europea dunque i cambiamenti non appaiono significativi, se non per il grado di approfondimento più marcato in quasi ogni paragrafo. Semplicemente: Renzi2 può raccogliere i frutti dei suoi predecessori al governo, in grado di ristabilire una credibilità diplomatica ed economica tanto da poter avanzare proposte e richieste di allentamento dei vincoli di bilancio.

 

La vera svolta è invece sul modello di partito. Il programma del 2013 era eloquente: il “Pd è lo strumento”, necessario a riconquistare i voti di Grillo ed acchiappare gli elettori di Berlusconi, comunicare le proposte del governo e del segretario, recuperare categorie mai attratte dalla sinistra e cullare quelle più radicate, come gli insegnanti (salvo il disastro della Buona Scuola). Oggi invece al partito è necessaria una “cura particolare, specialmente durante le stagioni di governo”: d’altronde – lo scriveva Claudio Cerasa venerdì scorso – Renzi, se eletto segretario, probabilmente non riuscirà a risalire a Palazzo Chigi in uno schema politico proporzionale ed avrà dunque bisogno di un partito forte e radicato al suo fianco. Ecco quindi che i circoli saranno dotati di “competenze e ruoli professionali dedicati”, e dovranno essere punto di riferimento per la comunità ed altre realtà associative; gli iscritti torneranno al centro del dibattito grazie a modalità periodiche di confronto con la base e alla formazione politica saranno destinati importanti investimenti, per seminari annuali, una summer school ed un sistema di aggiornamento continuo destinato agli amministratori. Non mancano tra le proposte un rafforzamento della comunicazione, soprattutto sui territori, e investimenti sull’albo degli elettori, il database-miniera d’oro dei milioni di elettori delle primarie mai realmente sfruttato dal Pd.

 

A Tommaso Nannicini è stato invece affidato il capitolo del welfare, tra cui anche l’atteso progetto del lavoro di cittadinanza. Quattro anni fa il programma era scarno: il terzo settore avrebbe dovuto diventare idealmente il primo, si proponeva un contributo di solidarietà sulle pensioni d’oro (poi bocciato dalla Corte Costituzionale) ed una riforma degli assegni sociali troppo iniqui. Oggi i riferimenti sono concreti: il contrasto alla povertà, la sfida demografica ed il cambiamento tecnologico. Come anticipato da Il Foglio, si intende abbandonare l’eccessiva categorialità per abbracciare un sistema più universale che possa fare da rete protettiva in un mondo sempre più precario e liquido. Si propone perciò di aumentare le risorse per il reddito di inclusione fino ad estenderlo a tutti i 4,6 milioni gli individui in povertà assoluta, come anche di istituire un assegno universale per le famiglie con figli a carico. Il piano del lavoro di cittadinanza prosegue su questa strada, proponendo di rafforzare la formazione continua che segue l’individuo all’interno del mercato del lavoro – secondo il modello del long life learning a cui l’Economist ha dedicato la copertina qualche mese fa –, una decontribuzione strutturale di tre anni per i giovani lavoratori, una forma di sostegno al reddito integrata alla Naspi ed un ammortizzatore sociale rivolto anche ai lavoratori autonomi, sul modello proposto da Emmanuel Macron. Un’attenzione speciale quindi per i più deboli, la cui assenza nell’azione di governo è stata una delle cause riconosciute della disfatta del 4 dicembre. Su questo punto, la lezione appare compresa, seppur senza riuscire ad andare oltre gli inflazionati “percorso di spending review già avviato”, “l’accelerazione nella digitalizzazione della Pa” ed i “recuperi di base imponibile” per quanto riguarda le coperture finanziarie necessarie.

 

La mozione 2017 propone ancora diverse misure concrete su fisco, giustizia e diritti civili e ambiente, dimostrando un approfondimento inaspettato dalla retorica renziana ed una leggera svolta a sinistra – ad esempio in tema di diritti civili, fino a sostenere il testamento biologico – che sarà apprezzata dalla base del Partito Democratico. Orizzonte di lungo periodo sull’Europa, un partito radicato e attenzione ai più deboli. Gli ingredienti per vincere le primarie del Partito Democratico ci sono tutti. Tornare al centro della scena politica nazionale sarà invece tutta un’altra partita.

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