(foto LaPresse)

No voto, no party, no Renzi

Claudio Cerasa

Andare a votare, sfidando fino in fondo il partito della omogeneità-tà-tà, sarebbe stata la chance per sanare la ferita del 4 dicembre. Ma un altro film era possibile? Sì, e bisogna vederlo prima di parlare di congresso e dimissioni

Poteva essere en marche, sarà invece en attendant. Lunedì Matteo Renzi si presenterà di fronte alla Direzione del Partito democratico, prenderà atto che la legislatura finita la notte del 4 dicembre andrà avanti ancora a lungo e quando, come sembra, annuncerà le dimissioni dalla segreteria del Pd, per convocare un congresso che dovrebbe svolgersi tra la fine di aprile e l’inizio di maggio, rivedrà improvvisamente il film degli ultimi due mesi. E capirà, in un lampo, che poteva esistere un’alternativa rispetto alla scelta sconsiderata fatta dopo la sconfitta al referendum costituzionale: le dimissioni da Matteo Renzi.

 

Nulla vieta che nei prossimi mesi ci sia ancora spazio per un Renzi leader di un soggetto politico che purtroppo sembra sempre più simile a una confederazione di correnti, un bonsai dell’Ulivo, invece che al partito unitario nato nel 2007. Nulla vieta, ovviamente, che il dilatarsi della legislatura (favorito dalle motivazioni depositate ieri dalla Consulta sull’Italicum, che in modo soft ma deciso invitano il Parlamento a garantire maggioranze omogenee tra Camera e Senato) possa offrire all’ex presidente del Consiglio una possibilità, minima, di ricostruire con calma un progetto di sinistra riformista.

 

Ma prima di pensare al domani, occorre fare un passo indietro e ragionare un istante su quello che sarebbe potuto succedere, e che invece non è successo. Ciò che avrebbe dato la possibilità all’ex presidente del Consiglio di non ritrovarsi nella condizione in cui si trova oggi: un leader assediato che con il suo partito appoggia un governo del Pd ma senza appoggiarlo con convinzione, e che dopo essere stato sconfitto sul referendum, sul post referendum, sulla linea del “o nasce un governo con Berlusconi o si va alle elezioni”, oggi deve incassare una nuova sconfitta e ammettere che la tesi del “facciamo un governo solo per pochi mesi e poi si va al voto” non ha trovato un riscontro nella realtà.

 

Senza sfidanti veri, se si andrà a congresso Renzi ha buone possibilità di diventare di nuovo il segretario del Pd. E se per parlare agli elettori riuscirà a trovare una chiave diversa della semplice voglia di vendetta potrebbe anche rafforzare la sua leadership nel partito – specie se lascerà intendere da subito che non sarà necessariamente lui il candidato premier al prossimo giro (non esistono più i candidati premier, sciocchini, nell’èra del governo Cnel i premier saranno per sempre scelti dal capo dello stato, come prevede la non riformata Costituzione più bella del mondo). Tutto questo, dunque, può accadere, anche se è difficile.

 

Ma proviamo a fare un gioco e a immaginare un film diverso. Notte tra il 4 e il 5 dicembre. Renzi si presenta in sala stampa a Palazzo Chigi. I risultati del referendum sono schiaccianti. Tredicimilioni di Sì, diciannove milioni di No. La rottamazione è stata rottamata. L’Italia dei sindaci non esiste più; e dunque non esiste più neppure il progetto politico di Renzi. Niente. Fine. Stop. Renzi lo capisce e fa quello che deve fare. Si dimette da tutto. Da presidente del Consiglio e da segretario del Pd. Saluta tutti, con un grande discorso. Poi fa le valigie, torna a Pontassieve, spiega la nuova situazione alla famiglia e decide di lasciare l’Italia e andare lontano. In Africa magari no, ché il posto è stato già riservato da tempo a un altro ex segretario del Pd.

 

Va in America, a San Francisco, a Palo Alto, dove vuole, e infila per un po’ dentro un congelatore, a 41 anni si può, il sogno di un’Italia a colori, incompatibile con un’Italia tornata a essere in bianco e nero. Niente potere, niente caminetti, niente segreteria, niente interviste, niente ministri al governo. Stop. Fuori da tutto. Per rifarsi una vita, preservare un progetto e lasciare lo spazio alle, diciamo, efficaci riforme di D’Alema, agli irresistibili progetti di Bersani, alle abili strategie di Speranza, alla profonda visione di Di Maio, agli irresistibili guizzi di Brunetta, ai lucidi assessori della Raggi.

 

Via da tutto, per un po’, per poi tornare, senza fretta, e riprovarci di nuovo – senza essersi nel frattempo dimesso da Renzi e senza essersi soprattutto esposto a un logoramento infinito che ha avuto l’effetto, sulla carta d’identità dell’ex premier, di trasformare gli ultimi due mesi, politicamente, in quasi due secoli. E invece no: nulla di tutto questo è successo. E per capire quello che potrà accadere nei prossimi mesi non si può non partire da questa premessa. Dalla premessa, cioè, che nell’epoca del governo Cnel un leader nato sotto la stella della vocazione maggioritaria potrà combattere con tutte le sue forze per preservare un sogno di sinistra riformista, ma la verità è che quando si sceglie di sostituire il progetto con la tattica bisogna accettare gli effetti e le conseguenze.

 

La conseguenza inevitabile del non farsi da parte al momento giusto – e anche del non andare a votare al momento giusto fottendosene del partito della omogeneità-tà-tà e scegliendo di inserire a forza il treno elettorale italiano a fianco di quelli francese e tedesco – è quella che oggi è sotto gli occhi di tutti. La rottamazione non c’è più, e oggi si rischia la restaurazione. La rivoluzione non c’è più, e oggi si rischia l’assuefazione. La rupture non c’è più, e oggi si rischia la normalizzazione. Forse ci sarà un modo per uscire da quest’imbuto asfissiante e chissà a cosa allude Renzi quando cita “l’amico Macron” e quando sceglie di cambiare il nome del movimento nato attorno ai comitati referendari da Basta un Sì a In Cammino. In cammino in francese si dice En Marche!, come urla Macron, ma per rimettersi in marcia davvero (sarà dura) e non essere per sempre intrappolato in un en attendant (sarà dura) e tentare di mostrarsi all’altezza delle sfide di oggi (Trump, Le Pen, Brexit, l’Europa da riscoprire e non da sputazzare) occorrerà non perdere ancora tempo. Votare subito sarebbe l’ideale, non solo per Renzi ma anche per il paese. Ma in caso contrario, senza voto, non si può restare un secondo di più alla guida del Pd. Rimettersi in cammino, dimettendosi, sarebbe un passaggio necessario anche se forse non sufficiente per tentare di rimettere il dentifricio nel tubetto e dimostrare che abbiamo torto quando diciamo che il 4 dicembre, scegliendo di far finta di nulla e accettando un ruolo non da protagonista nella tv in bianco e nero, Renzi si è dimesso da Renzi. Poteva essere en marche, purtroppo rischia di essere un lungo e interminabile en attendant.
 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.