Donald Trump (foto LaPresse)

Allarme Trump?

Redazione

Ragioni per non preoccuparsi troppo degli strappi di The Donald. Parla il professor Cassese

Professor Cassese, le prime mosse del presidente Trump stanno allarmando tutto il mondo. Lei ha fatto tradurre nel  2012 il più importante scritto sulla presidenza americana, quello di Bruce Ackerman, intitolato in italiano “Tutti i poteri del Presidente. Declino e caduta della Repubblica americana” (il Mulino, 2012) e vi ha aggiunto una prefazione intitolata – possiamo dire profeticamente? – “Dal presidenzialismo al cesarismo”. Come valuta i primi passi del nuovo presidente?

Consiglio di distinguere quelli che sono annunci dalle vere e proprie decisioni. L’idea di cambiare la legge bancaria di Obama è un annuncio, deve diventare un progetto preciso e passare al vaglio del Congresso. La scelta dei collaboratori porta invece il segno di concreti orientamenti. Anche lì bisogna attendere le conferme perché molte nomine debbono passare al vaglio del Congresso. Questo è in maggioranza repubblicano. Ma non bisogna dimenticare che Trump è un corpo estraneo alla tradizione repubblicana. Per cui troverà difficoltà nello stesso partito che l’ha portato alla presidenza.

 

Ma la preoccupazione di tutti è di vedere che gli anticorpi, i contropoteri, i famosi “checks and balances” non paiono essersi messi in moto, che il presidente continua la sua strada verso l’estremismo.

Intanto, ha già trovato un giudice federale (di quelli che restano in carica a vita, per di più nominato da un presidente repubblicano), che ha fermato un “executive order” presidenziale.

 

Ma gli avvertimenti vengono da lontano. Lo storico Schlesinger aveva pubblicato nel 1973 un libro sulla “presidenza imperiale”. Il libro di Ackerman, uscito negli Stati Uniti nel 2010, era anche esso un libro molto preoccupato, tanto che fu criticato per eccesso di allarmismo.

Della presidenza imperiale Ackerman fa un’analisi che parte dal modo in cui i presidenti sono scelti (il ruolo del finanziamento privato e la polarizzazione delle primarie), passa al modo in cui adoperano i sondaggi d’opinione, alla colonizzazione della burocrazia e alla centralizzazione delle decisioni, all’estremismo e all’assenza di poteri moderatori, giunge all’abbandono del principio del controllo civile sui militari (con la politicizzazione del comando militare e l’invasione dei militari nella Casa Bianca), all’espansione del potere presidenziale di iniziare guerre senza autorizzazione parlamentare, al governo dell’emergenza all’uso politico dei sondaggi di opinione, allo sviluppo degli staff legali del presidente, chiamati a giustificare decisioni problematiche. La cruda diagnosi contenuta in quel libro – su cui l’autore è tornato in molti articoli successivi, di dura critica dell’abuso dei poteri presidenziali continuato con Obama – aveva la sua origine nell’espansione dei poteri presidenziali con Bush e nelle decisioni prese in quel periodo per la “guerra al terrorismo”, fino alla giustificazione del ricorso alla tortura (ci risiamo con Trump). Ma si appoggiava su un’analisi dei vari punti di espansione dei poteri presidenziali che risale ormai a trent’anni fa.

 

Tutti questi elementi non le paiono confermati dal modo di agire di questo nuovo presidente, che decide a strattoni, in maniera impulsiva e tale da attirare tante preoccupazioni? Secondo lei non occorre essere preoccupati?

La caratteristica delle prime mosse politiche di Trump mi pare stia nel perseguire con coerenza due politiche opposte (mi rendo conto dell’ossimoro). Da un lato, solletica i sentimenti e i timori di coloro che sono preoccupati dal terrorismo islamico, dal flusso crescente di immigrati, dalla globalizzazione, dai crescenti squilibri di ricchezza, dalla delocalizzazione degli investimenti. Dall’altra, apre la porta agli industriali, ai banchieri e ai membri di quelle élite che la prima politica mette al centro delle sue critiche.

 

Ma il sistema politico-istituzionale non ha modi per correggere le incongruenze che ne conseguono, e che daranno luogo a forti contraddizioni nell’azione di governo?

Ritorno a Ackerman. Egli ricorda, nel suo libro, che il sistema costituzionale americano si fonda sulla separazione dei tre poteri e su un ricambio diversificato dei titolari dei maggiori organi: i membri del Congresso debbono essere sottoposti a verifica biennale, il presidente a elezione quadriennale, i senatori a rinnovo ogni sei anni, i membri della Corte suprema e delle corti federali restano in carica a vita. In questo sistema la presidenza ha esteso i suoi poteri, sia per ampliamento, sia per usurpazione, divenendo il ramo più pericoloso dello stato. Essa – secondo Ackerman – è sottoposta a una spinta estremistica, senza avere elementi moderatori.

 

Ma gli Stati Uniti sono una potenza mondiale e possono esportare i germi pericolosi. Come si evitano epidemie politico-istituzionali?

La prima garanzia sta nella durata: massimo otto anni. La seconda sta in un meccanismo che, volente o nolente, anche Trump deve accettare, che si chiama “horizontal accountability”. Nella comunità internazionale, non si possono fare strappi senza che si eserciti la pressione degli altri membri del “club”. Conosco l’obiezione: se si muove la maggiore potenza mondiale, chi ha la forza di frenarla? A questa obiezione rispondo con l’argomento di Kant nel famoso “per una pace perpetua”: il reciproco interesse. Gli Stati Uniti hanno bisogno di altri paesi, nei quali esportano, nei quali investono. Sono parti di reti che hanno contribuito a creare, anche, e talvolta soprattutto, nel loro interesse. Non possono liberarsene, se non facendosi danni enormi.

 

Possiamo trarre qualche insegnamento per l’Italia da questa storia della presidenza americana?

Proposte in senso presidenzialistico sono state avanzate anche in Italia. Il primo fu Calamandrei alla Assemblea costituente, nel 1947. Poi si riprese negli anni 70 e 80, con proposte presidenzialistiche e semi-presidenzialistiche, alla francese. L’idea fece breccia e fu realizzata a livello comunale e regionale, negli anni 90 del secolo scorso.

 

Con quali risultati?

Non particolarmente soddisfacenti. Se le istituzioni locali dovevano essere un campo di sperimentazione, ebbene essa ha dato risultati negativi. Le presidenze locali sono diventate una specie di trampolino di lancio per la scena politica nazionale, oppure un mezzo per esercitare piccole dittature locali. Non dànno contributi a una migliore amministrazione. Pensi ad alcuni dei presidenti di regioni meridionali. Ce n’è uno che dichiara di avere la Costituzione per breviario, ma non sa neppure quante sono le leggi della sua regione che sono state bocciate dalla Corte costituzionale. Un altro che pensa di migliorare la gestione accentrando nelle sue mani tutte le decisioni. Quasi tutti pronti a lanciare proposte demagogiche. Insomma, si ripete la vicenda dell’intreccio populismo-leaderismo. Per non dire dei sindaci…

 

In conclusione, lei è quindi contrario al presidenzialismo?

Come sempre, bisogna distinguere. C’è un’esigenza propria del mondo moderno, che è quella di continuità. Tutti gli stati fanno parte di molti “condomini”. Alle riunioni di condominio va il capo famiglia. Ma se il capofamiglia cambia ogni anno, non sarà ascoltato, non conoscerà i suoi interlocutori, non sarà in grado di formare alleanze. C’è quindi bisogno di stabilità, di continuità. Diversa è l’istituzione della personalizzazione del potere, il dialogo diretto che si stabilisce tra la popolazione e un leader. In una fase storica nella quale i corpi intermedi, i tramiti istituzionali, i partiti, sono divenuti evanescenti, quel rapporto diretto può dar luogo a fenomeni di peronismo. Insomma, sì un presidente del consiglio dei ministri che non cambi ogni anno, no a un primo ministro. Ma di questo parleremo più ampiamente, se vuole, un’altra volta.

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