Gioco, set, partita. Chi è Paolo Gentiloni, da Nuova Ecologia a Palazzo Chigi
Due incidenti altrui lo hanno catapultato nella miglior casella disponibile del momento. Del resto l’ex ministro degli Esteri è uno stemma araldico, una famiglia, una tradizione e una naturale vocazione di Palazzo
Non uno, ma due. Paolo Gentiloni è un interessante doppio a tennis, va preso di dritto e di rovescio e non sai mai qual è il suo colpo migliore. Giocatore da terra battuta, da fondo campo è uno che predilige i lunghi scambi, felpato fino ad addormentare il gioco, poi fa partire delle palle tagliate e sibilanti che sembrano innocue, destinate ad andar fuori, e invece finiscono sempre sulla riga. Dentro. Sotto rete è estroso all’eccesso, fino a sbagliare i colpi più facili, rapito dal desiderio di dimostrare che le veroniche sa farle anche lui. Fuori.
L’ultimo colpo è stato da fondo campo: riga, dentro, Palazzo Chigi. Gentiloni è il risultato della reazione chimica ad alto potenziale tra Renzi e Franceschini, è l’incrocio sulfureo degli occhi socchiusi da tigre ferita di Matteo, con la barba ad alto voltaggio e lo sguardo mai diretto di Dario. Tra i due, un fossato che dalla sera della sconfitta nel referendum si è riempito di coccodrilli. Gentiloni a capo del governo transeunte è un certo divanismo romano che accoglie, dialoga sulle cose del mondo, pascola nei campi della Chiesa e, frequentando con una spruzzata di snobismo il mistero della fede, si cala sulle cose terrene per raffreddare lo spirito rustico del Bomba di Firenze e quello da nebbia padana del Tarzan di Ferrara. Chi l’avrebbe mai detto, il fu giovane scapigliato e cattolico inquieto Paolo che, varcata la soglia dei sessant’anni (è nato nel 1954) si ritrova nel ruolo del Gentiloni in feluca, l’uomo della tregua in una guerra politica che non è finita.
Più che un uomo, Gentiloni è uno stemma araldico, una famiglia, una tradizione a trazione integrale, una naturale vocazione di Palazzo, un portato di nobiltà dove il cognome si dispiega nel contado italico, declinando in possedimenti di signorie del passato: Gentiloni Silverj, Nobili di Filottrano, di Cingoli e di Macerata. Una sagoma perfetta per Palazzo Chigi, la cui storia cominciò con la famiglia Aldobrandini e proseguì con quella dei Chigi, stirpe senese di banchieri (che sublime gioco a dadi è la storia). Un Palazzo, la grande storia, il potere. Il ministro degli Esteri ha la diplomazia nel Dna, imparentato con Ottorino Gentiloni, uomo del patto che nel 1912 unì politicamente i cattolici e i liberali di Giolitti, in fondo (ri)trova il suo campo da gioco, perché Palazzo Chigi fu sede di ambasciate e lui, Paolo, ha sempre amato immaginarsi come un Zbigniew Brzezinski del foro di Roma di fronte a The Grand Chessoboard, la grande scacchiera. La prima occasione per misurarsi con la sua biografia arrivò con il grazioso allontanamento di Federica Mogherini a Bruxelles e il suo arrivo alla Farnesina, ora il salto alla Presidenza del Consiglio, via Renzi (in tutti i sensi). Due incidenti altrui lo hanno catapultato nella miglior casella disponibile del momento. E’ una machiavellica fortuna dove il caso gioca la sua parte e il resto lo fanno il buon carattere, l’astuzia felpata, la tradizione ecclesiastica che si misura con il tempo lungo e lo traduce in sottile pazienza. Il presidente Sergio Mattarella lo ha scelto anche per questo, un passaggio dolce che dalla campagna italiana conduce al resto del mondo di cui l’Italia in questo momento ha più che mai bisogno.
Fu giovane, Gentiloni. Il primo carattere del doppio Paolo. Impaziente. Sfrenato. Scapigliato. L’educazione montessoriana prende forma kafkiana quando il ragazzo passa a Liceo Tasso e nel 1970 fa quello che impone la massa: l’occupazione. Da quel momento la famiglia scopre un’anima in fuga (letteralmente). Paolo viene rapito dalla bruma della fabbrica rivoluzionaria e va a Milano dove scopre le visioni di Mario Capanna e le trasforma in una militanza nella sinistra extraparlamentare del Movimento Lavoratori per il Socialismo, un sottoprodotto di lavorazione del Movimento Studentesco dei (poco) formidabili anni. Ah, il Sessantotto, che brio e che brivido per il pargolo di una famiglia con il palazzo nobiliare vicino al Quirinale. Quando il Movimento confluisce nel Partito di Unità Proletaria per il Comunismo, Paolo c’è. Non poteva non esserci, il taglio con la tradizione borghese deve essere consumato. Perché egli pensa. E scrive. In men che non si dica si ritrova a fare il mestiere che per molti in quegli anni è il naturale approdo dell’ideologia cingolata, il giornalismo. Senza colpo ferire, il suo impegno s’inchiostra, scrive per Pace e Guerra e nel pullulare di riviste di varia umanità di quel rutilante momento storico, ne trova una che al caso suo: diventa direttore di Nuova Ecologia e tra una bicchierata e l’altra con Chicco Testa ed Ermete Realacci scopre un mondo che trasforma l’impeto rivoluzionario in terra da coltivare, energia nuova, pane e giustizia per il volgo. E’ qui che incontra Francesco Rutelli e il suo progetto di partito (al) verde, più un fulmine che un arcobaleno, un passaggio a livello dove passa il treno di un’altra storia, quella che forgia il secondo carattere del doppio Gentiloni, un salto dalla rivoluzione all’istituzione. Rutelli, abile tessitore di storie politiche collettive e individuali, ne apprezza il tatto, la capacità di non strappare mai e mantenere il punto. I due sono nati lo stesso anno (1954), hanno in testa l’idea pazza di cambiare la sinistra italiana e quando il Partito comunista entra nella fase “toh, è crollato il Muro di Berlino” e cerca di coprire i suoi buchi nelle bandiere per Francesco e Paolo si apre un mondo diverso e un’occasione per introdurre un virus dentro il software senza aggiornamenti disponibili dei ragazzi di Berlinguer. Appiccano un incendio tra i rovi del postcomunismo, Rutelli diventa sindaco di Roma nel 1993 e nel 1997, Gentiloni lo segue come un’ombra in Campidoglio, ma in posizioni sempre più visibili, fino a essere uno dei protagonisti della Margherita.
Arriva in Parlamento nel 2001 e da quel momento è uno dei punti di riferimento del Palazzo quando ci sono idee da lanciare, tensioni da ammorbidire, inimicizie da centrifugare, errori da strizzare. Tiene d’occhio la comunicazione del Partito, si occupa con circospezione cardinalizia della Rai durante la sua presidenza nella Commissione di vigilanza, fa il ministro delle Comunicazioni nel secondo governo Prodi, si fa convincere per un attimo da Nostra Signora Utopia e porta in Consiglio dei ministri una riforma senza i piedi per terra con una fondazione alla guida della tv di Stato (figuriamoci), mentre il governo elefantiaco (103 componenti) del Professore viene dilaniato dalle lotte interne e dopo 722 giorni tira le cuoia.
E riecco la storia che si diverte ancora a giocare a dadi con la storia politica e le biografie: la caduta di quel governo (Prodi si dimette il 24 gennaio 2008) fu seguita da una fase di consultazioni in cui il presidente Giorgio Napolitano diede al senatore Franco Marini l’incarico di esplorare la possibilità di formare un esecutivo per scrivere una nuova legge elettorale ed evitare di andare al voto con il “porcellum”. Ieri come oggi, un altro governo di scopo. E un’altra legge elettorale incompiuta. Napolitano scioglie le Camere il 6 febbraio 2008, tutti a casa, si vota con la vecchia legge. Un’altra legislatura buttata alle ortiche e grande vittoria di Berlusconi alle elezioni. Fine del centrosinistra prodiano, rompete le righe. Negli Stati Uniti intanto è già esplosa la bolla dei mutui subprime, la recessione sta arrivando in Italia con un crollo di fatturati da spavento e una speculazione pronta a vendere il debito sovrano, il Pd cavalca il giustizialismo, Lady Spread dà il colpo di grazia, Berlusconi si dimette, il Pd non si rimette, arriva Monti e quelli come Gentiloni sono là, attoniti nel (ri)vedere D’Alema e Bersani giocare con i soldatini di piombo, palleggiano nel campo della recessione senza avere un obiettivo per il domani, finché il pareggio delle elezioni del 2013 accelera la crisi istituzionale e succede qualcosa.
Cosa? Dall’Arno emerge un uomo nuovo, è Matteo Renzi. Gentiloni ancora una volta legge il futuro. Quel ragazzo che fa il sindaco di Firenze sembra avere i numeri per dare il colpo di grazia al Partito democratico dei caminetti, della ditta senza ragione sociale, dei teorizzatori di giaguari da smacchiare. Paolo incontra Matteo, si mettono in cammino, sono due figli in asincrono della tradizione politica cattolica, più di vent’anni li separano, cosa possono fare insieme? E’ qui che Gentiloni ritrova il sogno, tra il rivoluzionario e il riformista, di scalare il Pd. Che sfida. Renzi perde e cade una prima volta. Si rialza e vince la seconda volta. Spento il caminetto, chiusa la ditta, accompagnato con la campanella Enrico Letta a Parigi. Che meraviglia, sembra fatta, si apre una nuova èra. Matteo commette l’errore di piazzare la Mogherini alla Farnesina, capisce in fretta che non è capace né utile e lo corregge con una delle sue spericolate mosse del cavallo, salta tutti, fa il trasloco forzoso di Federica nell’inutile poltrona di capo della gassosa politica estera dell’Unione europea e promuove Gentiloni dove avrebbe dovuto essere fin dall’inizio, agli Esteri. Da quel momento Paolo viaggia, vede, scrive, annota, progetta, incontra, tesse, cuce, ammonisce, prova a fare politica estera in un paese immobile che ha una linea mobile. Va al Council on Foreign Relations il 2 marzo scorso, sfodera un ottimo inglese, una dose di realpolitik, l’idea di portare pace e stabilità in Libia, essere amici degli americani senza dimenticare il gas della Russia.
E’ un attimo, già si fa strada una leopardiana strage delle illusioni. Matteo s’incarta sulle riforme economiche, butta decine di miliardi negli 80 euro, pensa a Keynes ma senza scavare buche, Paolo prega e si divincola come può tra le tensioni crescenti con la Germania e la nuova lega anseatica dei bilanci in ordine, c’è Mario Draghi che aiuta, il petrolio che scende, gli interessi più bassi della storia. Eppure tutto questo non basta. Gentiloni lo sa, si legge nei suoi silenzi un’inquietudine che si nutre dei suoi viaggi, del suo cogliere la distanza tra noi e gli altri, tra il mondo che corre e il sinistro scricchiolio di un sempre più vicino indietro tutta. Il referendum, l’all-in di Matteo Renzi e… arriva il 4 dicembre: game over.
Eccolo, il flashback. Sono trascorsi otto anni, Paolo Gentiloni è di fronte allo stesso bivio in cui si trovò quando era al governo con Romano Prodi nel 2008: una crisi nata dentro la sinistra, la sconfitta di un leader che era l’unica opzione possibile, un epilogo che si trasforma in un potenziale buco nero del sistema politico. Sembra la sceneggiatura di “Edge of Tomorrow”, ti svegli, combatti, muori, ti risvegli e devi ricominciare. Ieri, oggi, senza domani.
“Armonizzare le leggi elettorali”, dice il presidente Mattarella al termine delle consultazioni. E’ un déjà vu. Paolo è là, a fondo campo, la partita comincia al Quirinale, aspetta il primo servizio di Mattarella. Ore 13:15, Gentiloni esce dal colloquio con il presidente della Repubblica, un vestito scuro, una camicia bianca, una cravatta azzurra, una persistente emozione e “un onore” avere quell’incarico, niente bis, niente governo istituzionale, una sola possibilità, la pallottola d’argento della maggioranza con un altro nome, il suo. Sale il ricordo di un passo luminoso di Hemingway, una preghiera: “O nada nostro che sei nel nada, sia nada il nome tuo, nada il regno tuo e sia nada la tua volontà così in nada come in nada. Dacci oggi il nostro nada quotidiano e nada a noi i nostri nada come noi li nadiamo ai nostri nada e non nadare noi in nada ma liberaci dal nada; pues nada. Ave, nulla, pieno di nulla, il nulla sia con te". E’ tutto semplice, sulla terra battuta: gioco, set, partita. Qui no. Buona fortuna, Gentiloni. Smash.
storia di una metamorfosi