Matteo Renzi (foto LaPresse)

E se fosse l'Italia la vera alternativa al modello Brexit/Grillo/Trump?

Marco Simoni
E se evitassimo per una volta la discussione ragionieristica su ogni singola misura della legge di Bilancio e provassimo a leggere l’azione del governo nel suo complesso, tenendo in considerazione gli ultimi tre anni?

E se evitassimo per una volta la discussione ragionieristica su ogni singola misura della legge di Bilancio e provassimo a leggere l’azione del governo nel suo complesso, tenendo in considerazione gli ultimi tre anni? Da questa prospettiva, e a parte i grillini su cui tornerò dopo, il governo riceve due principali tipi di critica. Da sinistra si tende a ripetere un copione ultraventennale che accusa il governo Renzi – come faceva con Clinton, Blair, Schröder e D’Alema – di essere succube del neoliberismo e perseguire una politica economica di destra. Dalla destra liberale, viceversa, si accusa il governo di non fare abbastanza austerità – su questo il più chiaro è stato Monti – e di non tagliare abbastanza la spesa pubblica. Non ho richiamato queste due critiche per uno stucchevole “se protestano da destra e da sinistra allora il governo è nel giusto”, un sillogismo che mi è sempre sembrato insensato. Queste critiche simmetriche, per quanto minoritarie, qualcosa tuttavia vorranno dire. Vorrei allora suggerire un’analisi dal respiro più lungo per provare a mettere questi ultimi tre anni nel loro contesto. Mi rendo conto che è una cosa desueta, dedico questo sforzo alla gentilezza del direttore che mi ospita e a quei pochi che vorranno leggere e magari discutere.

 

La mia tesi è che, al netto di critiche sempre possibili sulla qualità e appropriatezza di questa o quella misura, la politica economica del governo Renzi rappresenta una genuina novità. La sua concezione di fondo si sforza di combinare la fiducia nella capacità del mercato di promuovere crescita e innovazione, con la riscoperta della responsabilità dello stato, e quindi della politica democratica, di intervenire non solo per “investire in risorse umane e infrastrutture” (come suggeriva Giddens nel 1998, pagina 99 della “Terza Via”), ma per sostenere attivamente il contratto sociale che tiene assieme parti diverse della nostra società. Una nuova combinazione tra stato e mercato – lungi da me la presunzione di poterla esprimere compiutamente qui – che riconosca fino in fondo entrambe le prerogative, è l’unica ragionevole alternativa finora emersa alla politica della chiusura propugnata dai demagoghi di ogni latitudine. Altri governi, in particolare quello di Obama, hanno seguito una politica simile nei princìpi ispiratori, al punto che le opzioni concrete che si pongono ai nostri paesi iniziano ormai a essere abbastanza definite. Per provare ad argomentare (ve lo dicevo che era uno sforzo desueto) faccio qualche passo indietro.

 

A ben pensarci, negli ultimi anni sono avvenuti molti fatti politici inaspettati. La memoria da pesce rosso del dibattito pubblico si concentra sulla Brexit e sulla nomination di Trump. Eppure, la vittoria dell’outsider Obama alle primarie del 2008 è stata anch’essa imprevedibile, così come la nomina nel 2014 di un primo ministro di 39 anni nel paese più gerontocratico d’Europa. Questa lista può continuare ad libitum: il referendum in Colombia dove vince la guerra sulla pace, l’esplosione del Partito nazionale scozzese, iperlocalista ma cosmopolita; la primavera araba e i suoi seguiti; l’improvvisa involuzione del Brasile; eccetera. Ma quando avvengono tanti fatti inaspettati, forse non sono i fatti a essere imprevisti, ma la nostra capacità di analisi ad avere qualche problema.

 

Se compare un cigno nero al mese dobbiamo riconsiderare la definizione del volatile invece di continuare, come avviene ormai da anni, a gridare alla meraviglia. Infatti, secondo me abbiamo letto gli avvenimenti degli ultimi dieci anni circa con gli occhiali dei venti anni precedenti. Certo: anno più, anno meno. Un autentico cigno nero, secondo me, fu quello che volò nel 2008. “Sembrava la fine del mondo” mi raccontò una giovane funzionaria, a proposito delle scene di panico nella sede di Londra di Lehman Brothers, che era improvvisamente fallita. La bravura dei banchieri centrali riuscì a contenere la portata della crisi finanziaria. La Grande recessione iniziata nel 2007-2008 è durata molto meno della depressione del ’29. Le cose, nella City o a Wall Street, sono tornate a posto in relativamente poco tempo. Nonostante ciò, tuttavia il mondo, quel mondo, era finito davvero e ne era cominciato un altro senza che la maggior parte di noi se ne fosse accorto.

 

Quella crisi economica ha segnato una profonda crisi generazionale e un periodo di incertezza che dura ancora oggi, naturalmente acuito dalle altri fonti di incertezza, dai migranti, al terrorismo, ai fatti climatici. E’ aumentata non tanto la diseguaglianza – che era già aumentata nei venti anni precedenti e che invece ha avuto andamenti molto diversi da stato a stato, per esempio in Italia dalla crisi a oggi non è aumentata affatto: era già molto alta. E’ aumentata, anche per effetto dei social network, la percezione della distanza da parte di chi si sente incerto, insicuro e in balìa del vento della globalizzazione, rispetto a chi invece sembra essere partecipe dei processi globali e – forse per questo sembra essere – immune da insicurezze e incertezze. Come dimostrano gli studi comparativi sulla (in)felicità, essa non dipende dalla diseguaglianza reale, ma dalla diseguaglianza percepita.  

 

Questo senso di estraneità, questo senso di diseguaglianza, non è riducibile a una semplice “perdita economica” a seguito della globalizzazione. Certo, i perdenti della globalizzazione contribuiscono a esso, ma i reportage sui sostenitori di Trump, della Brexit, o di Grillo, non suggeriscono facili correlazioni: spesso classi medie – per quanto geograficamente periferiche – supportano oggi opzioni dalle parole demagogiche e populiste (quanto alle politiche, ora ci arrivo). Questa incertezza e diseguaglianza sono causa, ma prima di tutto effetto, della perdita di fiducia nel modello che ha guidato la politica economica mondiale nei venticinque anni che hanno preceduto la crisi finanziaria. Dopo di essa, il massiccio intervento pubblico in economia dei governi britannico, americano, e poi tedesco e francese, per salvare banche e industrie in difficoltà, ha smentito nel giro di pochi mesi la credibilità di un consenso fondato quasi esclusivamente sulla fiducia illimitata nelle capacità del mercato, e sulla sfiducia aprioristica nell’intervento dello stato.

 

Nei confronti del pacchetto di politiche del “Consenso di Washington”, ricette liberali basate sulla convinzione di maggiore efficienza economica rispetto alle alternative, si osserva da allora uno scetticismo e opposizione che ricorda la critica che montava negli anni 70 contro il modello dello stato imprenditore e della forte presenza sindacale. Oggi come allora, una crisi di fiducia – politicamente più rilevante di una presunta crisi di efficacia – colpisce gli elementi fondamentali che nei trent’anni precedenti hanno garantito benessere, crescita e anche crescente pace nel mondo. Va sottolineato che sia nel secondo Dopoguerra sia durante la grande moderazione cominciata negli anni 80, le opzioni di fondo della politica economica, statalista prima e di mercato poi, erano condivise da conservatori e progressisti, che tendevano a differenziarsi su modalità di esecuzione, tempi, priorità (e successivamente sulle politiche valoriali, tradizione contro libertà individuale). A seguito della crisi finanziaria e delle sue conseguenze, oggi un equilibrio di politica economica condiviso non c’è più, anche se ormai le alternative, almeno a me, sembrano chiare.

 

Da un lato c’è il modello Grillo/Trump/Brexit, che sembra nuovo, forse perché tendiamo a confondere il contenuto col medium: internet e i social network. In effetti, appare nuova la stima e la fiducia che questi movimenti manifestano per l’ignoranza, l’approssimazione e la falsità. Il fastidio nei confronti di modelli elevati combinato alla diffusione di indulgenza narcisistica nei confronti delle proprie mediocrità è un fenomeno relativamente nuovo che ora viene cavalcato politicamente. Tuttavia, dietro questa cortina fumogena di novità, si cela la più tradizionale delle reazioni sociali ai periodi di insicurezza: chiusura, chiusura, chiusura.

 

Il luogo che sta vivendo più da vicino una prima versione vincente di questo modello è il Regno Unito, che ha rotto l’argine a una possibile vittoria nazionale dei demagoghi occidentali che costruiscono muri, rifiutano sfide complesse come l’Unione europea (o le Olimpiadi) e cercano parole d’ordine che richiamano immaginari piccoli mondi antichi dove tutto andava bene perché si mangiavano le verdure dell’orto senza olio di palma. Conta poco come si articola il capro espiatorio nazionale: gli immigrati messicani, o la casta; le banche, o l’Unione europea, sono tutti utili alla bisogna di una politica che chiude le persone e le cose in confini sempre più stretti e dunque fa bene solo ai detentori di rendite, ai piccoli poteri locali prepotenti, e porta con sé conseguenze spiacevoli per chi è fuori dal conformismo che si vuole imporre.

 

L’alternativa a questo modello tuttavia, non è il ritorno alla fase naïf della globalizzazione, magari con una spruzzata di salvaguardia in più per i perdenti della globalizzazione. L’alternativa alla soluzione demagogica – che non è più impraticabile, ma disprezzabile e foriera di disastri – passa necessariamente per una critica al modello precedente, a partire dall’abbandono definitivo dell’idea che possano esistere soluzioni tecnocratiche a problemi politici, ovvero a problemi di come si distribuiscono valori e risorse, e come si bilanciano i bisogni confliggenti delle persone. Questa è la critica più ragionevole al modello attuale dell’Unione europea: superato un certo livello di complessità, pensare di ridurre a problema tecnico la distribuzione di valori e risorse rende impossibile rispondere tempestivamente a crisi valoriali ed economiche. Criticare il modello precedente, non significa naturalmente voler tornare ad ancora prima, agli anni 60.

 

Come ha scritto con efficacia Jonathan Hopkin, un politologo radicale e acuto della London School of Economics, se i populisti sguazzano nella politica post fattuale, la risposta di Corbyn e dei suoi equivalenti è la politica della magia, che vuole tramutare i desideri in realtà al tocco di una bacchetta. Ma sarebbe parimenti un ritorno al passato, per quanto più recente, quello auspicato da chi continua a invocare il bisogno di una “vera” politica liberista che, senza macchia e senza paura, limiti l’azione dello stato quanto più possibile a funzioni di cura residuale dei poveri e (forse) a una parte dell’educazione pubblica.

 

Al passato non si torna, ma dal passato si impara sempre. Dunque, chi oggi pensa che sia ideologicamente – prima ancora che economicamente – preferibile l’apertura rispetto alla chiusura, deve porsi il problema di come raggiungerla e garantirla, l’apertura, non limitarsi a invocarla. Nell’ambito delle grandi economie, sono stati due i principali governi che negli scorsi anni hanno suggerito in maniera articolata una nuova risposta a questo dilemma politico, ovviamente nelle loro differenze e ognuno con i suoi limiti, quello di Obama e quello di Renzi. Come dicevo all’inizio, mi concentrerò sul secondo.

 

Il primo asse rintracciabile nei diversi provvedimenti di spesa, tassazione e regolazione del governo è quello della fiducia nella capacità del mercato di stimolare la crescita economica. Questa è la grande lezione non tanto degli economisti, quanto dell’esperienza del mondo della fine del Ventesimo secolo. Mercati liberi e funzionanti stimolano l’innovazione e quindi la crescita; poche e stabili regole favoriscono gli investimenti: l’accesso ai mercati deve essere poco costoso, le tasse eccessive devono essere evitate perché sono incentivi di freno all’iniziativa individuale. A certe condizioni (non sempre) mercati più liberi possono anche ridurre alcune diseguaglianze. Questa convinzione si è tradotta in una costante riduzione delle tasse (Irap Imu, Ires), in semplificazione normativa (Jobs Act, burocrazia, banche, finanza, Equitalia), e nel sostegno esplicito alla attività privata in termini culturali e operativi, come le misure per l’export.

 

Le più recenti, e quantitativamente significative, misure fiscali per favorire i cosiddetti investimenti 4.0 valgono la pena di essere brevemente richiamate non solo perché nuove e meno conosciute, ma perché legate al secondo asse portante di questa politica economica: una rinnovata fiducia nello Stato, i cui limiti vengono posti dalla contemporanea fiducia nel mercato. Il piano Industria 4.0 non si limita a favorire fiscalmente gli investimenti, ma compie la scelta politica, dunque sanzionabile dagli elettori, di identificare quali investimenti – quelli in altissime tecnologie – favorire maggiormente. Tuttavia, il piano non pretende di selezionare i settori di attività o i piani industriali, che invece rimangono naturalmente determinati dalle forze di mercato.

 

E’ certamente un crinale difficile nella politica industriale, che deve costantemente guardarsi dall’ingerenza nella iniziativa privata, ma questa logica della responsabilità dello stato è la stessa che sottende altri interventi di rafforzamento del ruolo pubblico operati dal governo: le massicce assunzioni di insegnanti, l’investimento – in questa ultima manovra – nella ricerca e nella università, i numerosi provvedimenti per il sociale. Ma questo ruolo pubblico, teso a rafforzare il contratto sociale, non si è limitato al tradizionale “welfare state” perché tutto cominciò, a ben guardare, con gli 80 euro, che sono stati la singola maggiore misura di redistribuzione a favore dei redditi medio bassi, seguiti quest’anno dal sostegno alle pensioni povere e alla facilitazione della pensione per lavoratori a basso reddito.

 

Questa interpretazione che enfatizza la necessità di un nuovo compromesso democratico, tra la crescita economica e l’inclusione sociale, può inquadrare anche altre scelte, ad esempio l’intervento di Obama a favore dell’industria automobilistica, o quello italiano per alcune industrie strategiche, e ha implicazioni importanti anche per la politica europea e quella commerciale, finora solo abbozzate, e sulle quali si potrebbe discutere.
Ciò che mi sembra evidente è che senza la crescita che solo il mercato può assicurare vi sarà sempre meno lavoro e più alienazione. Similmente, senza un crescente protagonismo dello stato che rafforzi il contratto sociale, il mercato aperto è destinato a nutrire la propria opposizione pregiudiziale. La strada è naturalmente stretta, da vincoli di bilancio e opposizioni pregiudiziali, ma l’alternativa a una combinazione avanzata di mercati liberi e stato protagonista è il mondo chiuso e ossessivo desiderato da Trump, Grillo, Farage, o dal prossimo demagogo miliardario senza nulla da perdere che seguirà la loro ispirazione.

 

Marco Simoni è consigliere della presidenza del Consiglio per la politica economica