
Porta e sportelli
Erano 113 anni che nessuno ci passava più, da quella porta. Per meglio dire nessuno c’era mai veramente passato, da quando nel 1903 era stato realizzato l’ampliamento della Pinacoteca. E quell’apertura in cima allo scalone disegnata da Piermarini nel 1780, come ingresso monumentale alla monumentale Biblioteca Braidense, era rimasta lì, ancora una volta inutilizzata. Finché nel 2001 Vittorio Gregotti ne ridisegnò gli infissi in metallo brunito (infatti adesso la chiamano “Porta Gregotti”), ma ugualmente rimase chiusa. Fino a ieri mattina. Quando il ministro dei Beni e delle attività culturali, Dario Franceschini, il sindaco Beppe Sala e il direttore di Brera James Bradburne con strepitoso gilet a grandi pois hanno tagliato il nastro e hanno varcato la soglia. Non l’apertura della porta santa, ma poco c’è mancato, all’apertura della “Porta delle meraviglie”. Tanto era il carico di significati simbolici, non soltanto milanesi, di cui volutamente era stato caricato l’evento. Scherzi a parte, ci sono alcune cose interessanti da sottolineare. Non soltanto riguardo al museo in sé e alla trasformazione in corso. Per quanto il direttore anglo-canadese – arrivato poco più di un anno fa in forza della riforma che ha reso autonomi i grandi musei di stato, e aperto la strada alla nomina dei direttori in base a un concorso internazionale – abbia sottolineato alcuni punti chiave.
Primo, che dopo un anno di lavoro, l’apertura della Porta Gregotti (finalmente a Brera non si entrerà più dalla porticina del bookshop) è simbolicamente l’apertura della Grande Brera alla città. Secondo: l’inaugurazione nel 2018 di Palazzo Citterio, a fianco di Brera, come luogo di esposizione permanente delle collezioni di arte contemporanea. Questi due poli museali lavoreranno poi di concerto – con mostre, eventi, programmazioni condivise – con il Museo del Novecento, che invece è un ente del comune di Milano, creando di fatto un polo museale diffuso per l’arte fino al contemporaneo tra i più importanti del mondo. Una ulteriore eccellenza milanese, che inorgoglisce molto Beppe Sala, dopo i dati sull’economia milanese resi noti in settimana. Tra i quali spicca anche il sorpasso per il terzo anno consecutivo per numero di turisti su Roma – secondo il Global Destination Cities Index di MasterCard, nel 2016 Milano è al 14° posto mondiale con 7,65 milioni di visitatori rispetto ai 7,12 di Roma – nel quale va computato anche il fattore del sistema museale pubblico e privato.
C’era Dario Franceschini, ieri a Brera, e la sua non è stata soltanto una cortesia. Il suo presidente, Matteo Renzi, sa di dover sfruttare l’immagine e le performance di Milano come un simbolo dell’Italia che ce la fa – “Sono cresciuto con un mito, ho sempre visto in questa città il punto di riferimento avanzato per chi vuole investire sul futuro”, ha detto lunedì all’assemblea di Assolombarda. In modo analogo, il ministro della cultura sa che il buon lavoro svolto da Brera nell’ultimo anno è una conferma positiva della sua riforma, e una smentita delle critiche “benecomuniste” che aveva ricevuto. Così il passaggio a Milano è servito per fare un breve punto politico. Per spiegare che l’idea di trasformare in musei autonomi – in quanto a capacità gestionale e imprenditoriale – i grandi musei di stato non è una commercializzazione, ma una valorizzazione che sta funzionando. E i numeri, anche solo di visitatori, i crescita dell’ultimo anno lo dimostrano. Così come l’idea delle domeniche gratis, altrettanto contestata (ma compensata dalla scelta di togliere la gratuità agli over 65 anni, così da evitare che frotte di benestanti turisti americani o giapponesi entrino gratis) sta portando a un incremento generale della frequentazione dei musei. E in questo, Brera sta ben figurando. Ha parlato del museo di Capodimonte a Napoli, Franceschini: un’altra delle strabilianti istituzioni d’arte italiana con più margini di valorizzazione e di crescita. Infine, per non farsi mancare niente, ha ricordato il dato sull’iniziativa dei cinema a due euro, riproposta mercoledì: oltre un milione di biglietti staccati, duecentomila in più del giorno di Natale. E anche in questo caso, la ricaduta sull’abitudine di andare al cinema anche nei giorni normali, ha un trend positivo. Insomma, ha concluso, con soave strizzatina d’occhio referendaria: le riforme fanno bene, e fanno crescere il paese. #bastaunSì.
Giorni in fibrillazione per la community finanziaria milanese. Sabato c’è l’assemblea della Banca Popolare di Milano, che dovrà votare sul piano di fusione con il Banco Popolare. I biglietti staccati per la partecipazione sono oltre undicimila, ha fatto sapere il ceo Giuseppe Castagna, vicini alla cifra record dell’assemblea che nel 2011 si espresse sulla governance duale dell’istituto di Piazza Meda. La fusione ha bisogno dell’approvazione dei due terzi dell’assemblea. Secondo gli esperti, una alta partecipazione dei soci significa una diluizione del peso della componente dei soci pensionati di Bpm, contraria alla fusione. Però, al Financial Times, Castagna ha confessato: “Ho davvero paura che qualcosa vada storto”. Una partita che interessa la finanza e anche il mondo politico, in primis il presidente designato Umberto Ambrosoli. Pd, ala Beppe Sala.