Il premier Matteo Renzi (foto LaPresse)

Molto meglio personalizzare

Claudio Cerasa
Quand’è che un predatore diventa preda? Renzi, il referendum, il lettismo e la necessità di usare un linguaggio di verità sulla partita della vita. Perché la mossa sulla legge elettorale è il sintomo di una rischiosa debolezza.

Nella vita di un politico, a un certo punto della storia, arriva sempre un momento in cui il predatore comincia a fare fatica, in cui inizia a perdere colpi, in cui non riesce più a riconoscersi allo specchio e in cui vede i suoi artigli spuntarsi ogni giorno di più: un momento in cui il predatore si accorge insomma che quelle che un tempo erano delle semplici e facili prede sono a un passo dal trasformarsi in predatori. Quella fase della vita politica non è ancora arrivata per Matteo Renzi ma un dato oggi è certo: alla luce di alcune dinamiche che stanno prendendo forma in questa campagna referendaria, non ultima la scelta enricolettiana di aprire un tavolo (speriamo finto) con le opposizioni per ridiscutere una legge elettorale ancora neppure sperimentata alle urne (presidente, sul serio?), il passaggio da predatore a preda oggi è un rischio concreto – e senza alcuni accorgimenti la gazzella di governo ha buone possibilità di essere mangiata viva dai leoncini dell’opposizione.

 

Al centro del nostro ragionamento vi è la svolta che il presidente del Consiglio ha voluto imprimere alla campagna referendaria e quella svolta, messa in pratica oggi in nome di una grande pacificazione nazionale, suona più o meno così: smettiamola di personalizzare il referendum, cominciamo a occuparci solo di contenuti e dimostriamo che l’appuntamento elettorale non è un passaggio sulla figura di Renzi ma è un passaggio tecnico su una Costituzione che deve essere cambiata. Stop. La scelta di Renzi, dettata anche da alcuni sondaggi non troppo incoraggianti che non sembrano essere migliorati dopo la svolta normalizzatrice, ha una conseguenza non secondaria sulla partita referendaria: una campagna non personalizzata in un’epoca politica in cui gli unici messaggi che funzionano sono quelli che vengono personalizzati non è solo una prova di debolezza che spinge Renzi ad agire contro natura (e dunque contro se stesso) ma è anche una trappola all’interno della quale il Rottamatore rischia di rimanere imprigionato.

 

L’appuntamento del referendum costituzionale, come è evidente, non è un passaggio politico come tutti gli altri, come la spersonalizzazione potrebbe indurre a credere, ma è un momento chiave per realizzare alcuni progetti che vanno al di là dell’architettura costituzionale e che sono collegati a una visione politica che parte da lontano (Craxi, Berlusconi) e di cui Renzi è solo l’interprete finale. Forse l’appuntamento di fine novembre non coinciderà, come qualcuno vorrebbe far credere, con la fine del mondo ma di certo la sfida sarà decisiva per decretare la rottamazione di un mondo che Renzi oggi dovrebbe affrontare con meno lettismo e meno bersanismo ma semplicemente a viso aperto, anche attraverso una marcata forma di personalizzazione della politica.

 

E mai come in questo caso il presidente avrebbe solo da guadagnare nel ricordare che all’interno del fronte di chi si oppone alla riforma costituzionale sono presenti molte anime che in questi ultimi vent’anni hanno bloccato il paese facendo leva proprio su un sistema istituzionale imperfetto, rigido, tortuoso, macchinoso, burocratico, concertativo e persino consociativo. Ed è evidente che in caso di vittoria del No tornerà a recuperare terreno tutto ciò contro cui negli ultimi anni ha combattuto non solo Matteo Renzi (dal benecomunismo al giustizialismo, dall’ambientalismo al post comunismo, dal conservatorismo alla concertazione). Davvero dunque vale la pena spersonalizzare, mettere da parte la propria faccia, tergiversare su molte partite cruciali, e normalizzare la portata del referendum costituzionale?

 

Dal punto di vista tattico, provando ad allargare la nostra inquadratura, è da escludere che Renzi possa vincere il referendum rincorrendo i grillini sul terreno dell’anti politica, rincorrendo la minoranza del Pd modificando un articolo della legge elettorale o contendendo qualcosa ai sindacati nella legge di Stabilità. Lo vincerà solo se tornerà a sorprendere, solo se non traccheggerà, se utilizzerà un linguaggio di verità non solo sul referendum costituzionale e se spiegherà senza timore che la vittoria del sì aiuterà a modernizzare il paese sotto il profilo tecnico ma anche sotto il profilo politico.

 

La personalizzazione che serve a Renzi per conquistare la maggioranza sì-lenziosa del paese (che al contrario del fronte del no deve essere ancora mobilitata) non è necessariamente quella che passa dalla sovraesposizione del suo nome e del suo cognome ma è quella che passa dalla chiarezza del messaggio incarnato oggi dal presidente del Consiglio: la possibilità cioè di scegliere tra un’Italia che si sviluppa sul modello Milano (sì) e un’Italia invece che precipita nel modello Roma (no). In ballo dunque non c’è solo la faccia di Renzi ma c’è tutto il succo del suo progetto politico: un paese da modernizzare, una politica da rinnovare, una sinistra da rivoluzionare, un coalizionismo da rottamare, un bipolarismo da alimentare, un multipartitismo da superare. Spersonalizzare significa normalizzare. Normalizzare significa minimizzare. Minimizzare significa prepararsi a diventare preda. Forse non ne vale la pena.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.