Il presidente del Consiglio Matteo Renzi e il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni

Toh, l'interesse nazionale

Alessandro Aresu
Il governo Renzi, in politica estera, sdogana un tabù della sinistra. I princìpi non possono divorziare dalla realtà politica. Vedi i rapporti con Europa e America.

Dal 4 marzo a domenica 6 marzo si tiene a Genova, a Palazzo Ducale, il Festival di Limes, il cui tema quest’anno sarà “La terza guerra mondiale?”. Alcuni stralci del prossimo numero della rivista diretta da Lucio Caracciolo. Tra le altre firme presenti nel volume: John Willerton, Chunchun Hu, Andrej Kortunov, Hans Kundnani e Tolga Tanis.


 

 

Non siamo in guerra con lo Stato islamico, ma con Bruxelles: il ruolo dell’Italia nella “terza guerra mondiale a pezzi” sembra potersi riassumere così. La bussola della prudenza va in vacanza quando si affrontano burocrazie e negoziati, perlomeno nella narrazione giornalistica. Se sono un investitore o un diplomatico che cerca di capire qualcosa dell’Italia e faccio una passeggiata tra i media nostrani (WikiLeaks ci ha mostrato che così avviene la tipica produzione del dossier “classificato”), capisco che non esiste uno scontro di civiltà con l’islam, ma è in corso uno scontro a muso duro dove è in ballo la civiltà europea, a Palazzo Berlaymont. Bisogna verificare l’agenda di Federica Mogherini. Occorre monitorare il linguaggio del corpo di Manfred Weber, giammai scordando l’ultimo virgolettato di Jeroen Dijsselbloem.

 

Nella nostra analisi sull’Italia cercheremo di andare oltre questi aspetti concentrandoci su un concetto, il ritorno dell’interesse nazionale, attraverso lo specchio di due grandi pensatori degli Stati Uniti, Hans Morgenthau e Walter Lippmann.

 

Una premessa sull’orizzonte: il 2016 dell’Europa somiglia all’estate sui mercati. Siccome tutti sono concentrati sul 2017, anno elettorale per Francia, Germania e per l’identità del Regno Unito, gli acquisti e le vendite sul mercato politico europeo fanno più male, e aumenta la possibilità di eventi estremi. In generale, lo scenario economico internazionale va peggiorando, come mostrato dai moniti sempre più negativi di Maersk, un indicatore cruciale dello stato del commercio globale. L’Italia è esposta al caos dal rilievo economico del commercio globale e della fiducia europea per la nostra industria, oltre che ovviamente dalla nostra posizione geografica.

 

E’ in questo contesto che avviene la riscoperta dell’interesse nazionale da parte della nostra leadership politica. Il ministro degli Esteri e il presidente del Consiglio amano questa espressione: “Dobbiamo recuperare senza vergognarcene un concetto semplicissimo: l’interesse nazionale”; “l’interesse nazionale non è una parolaccia”. E’ una scoperta per la cultura politica della sinistra, perché “interesse nazionale” non veniva pronunciato senza vergogna nel Dopoguerra, prima della fine della Guerra fredda (con la parziale eccezione di Togliatti). Se è vero che in quel tempo esisteva la cultura politica, non dobbiamo dimenticare che sussurrare “interesse nazionale” o avanzare un discorso pubblico sulla nazione voleva dire parlare come i fascisti. Lo stesso Nino Andreatta, pur autore di stupende riflessioni sul concetto di “partito nazionale” (la Democrazia cristiana), disprezzava l’espressione “interesse nazionale” e preferiva parlare di interesse generale o interesse collettivo. Come lui Raffaele Mattioli: non era solo un tratto democristiano.

 

La grande riflessione di metà Novecento sulla politica estera degli Stati Uniti è intimamente legata al concetto di interesse nazionale. Scrivendo “In Defence of the National Interest” (1951), Hans Morgenthau ricordava l’importanza di agire in base a princìpi derivati dalla realtà politica, non da essa divorziati. Secondo Walter Lippmann, “il principio di ogni corretta politica estera è quello per cui si possono prendere decisioni, si possono dirimere controversie e si può raggiungere un accordo solo quando si elabora una politica che metta in equilibrio i dossier in cui si è impegnati e il potere che si ha di realizzarli”. Possiamo utilizzare la bussola di Morgenthau e Lippmann per elaborare una concezione realistica dell’interesse nazionale italiano, per dissipare alcune illusioni, per giudicare la nostra posizione attuale e le nostre sfide.

 

 

Come muoversi in un continente in declino

 

(…) Veniamo quindi al punto centrale: l’Italia in Europa. Partiamo da una visione realistica dello stato presente delle vicende europee. L’Europa è in declino, per ragioni demografiche, economiche ma soprattutto politiche. L’euro e l’Unione europea sono state scommesse geopolitiche e ideologiche legittime, ma negli ultimi dieci anni hanno mostrato i loro limiti. Con l’euro si voleva indebolire o vincolare la Germania. Non è accaduto. L’Unione europea scommetteva sulla fine dello Stato, sul tramonto dei confini, sulla sostituzione della forza con direttive, regolamenti e lobbisti. E’ successo il contrario. Ci svegliamo nell’epoca dell’ambiguo ritorno dello Stato, l’unica forza che rivendica l’ordine nel caos. L’ideologia europea scommetteva sul ruolo salvifico delle crisi per trasformare in realtà i sogni dei padri fondatori. Questo non avviene, anche perché non esiste chiarezza sulla destinazione del progetto. Ai confini dell’Europa non vi è pace, ma caos. All’interno, i muri si moltiplicano. La generazione Erasmus è priva di divisioni per combattere la battaglia delle idee. L’opinione pubblica europea è un fantasma: assistiamo a questo processo di dissoluzione come se non ce ne importasse nulla. A parte Houellebecq in “Sottomissione”, non è nemmeno nata una letteratura interessante sull’infinita crisi europea. La Banca centrale europea, da whatever it takes alla guerra churchilliana contro l’inflazione, è sola. La recessione arriva in Finlandia, il bilancio austriaco fa quasi la stessa fine di quello dei paesi mediterranei. Su tutte le principali partite, in particolare in materia di sicurezza e immigrazione, il centrorientale gruppo di Visegrád ha una sua soggettività geopolitica che a volte fa a meno perfino delle direttive tedesche, costituendo un blocco di ipersovranità interno all’Unione europea, con valori propri. In sintesi, il declino europeo ci smaschera, e sotto la maschera rischiamo di scoprire un volto estraneo alla democrazia e alle costituzioni del dopoguerra, seppellite dall’incapacità di rispondere alle sfide demografiche. Queste costituzioni potrebbero raggiungere presto in cimitero ciò che più è morto tra i vari morti che si aggirano per l’Europa: la socialdemocrazia.

 

Alla fine di questo lamento, che cosa facciamo? L’interesse nazionale è l’esigenza di compiere un passaggio successivo. Una volta che abbiamo considerato l’Europa “come esiste realmente” (Ralf Dahrendorf), occorre definire la nostra posizione, i nostri interessi, i nostri obiettivi, derivandoli dalla realtà politica. Questa è la logica dell’interesse nazionale. Per esempio, vogliamo che il calderone europeo incontri la sua definitiva dissoluzione, perché riteniamo più utile per l’interesse nazionale la sua spartizione da parte di attori esterni? E’ realmente questo il nostro interesse? O il nostro interesse è la dissoluzione dell’euro, a prescindere dal costo dell’operazione, perché riteniamo che la priorità per la nostra manifattura sia avere una moneta diversa dalla Germania, nonostante vi sia una simbiosi manifatturiera nelle catene del valore? Oppure riteniamo veramente – non a parole, non nella ripetizione della solfa “dobbiamo stare insieme per competere e contare nella globalizzazione” – che il nostro interesse sia l’unione politica dell’Europa? Se davvero è così, occorre vedere le condizioni che la possono rendere effettivamente realizzabile, prima delle celebrazioni per il centenario della morte di Altiero Spinelli. Anzitutto, dobbiamo prendere sul serio la realtà della differenziazione dell’Europa, smettere di raccontarci che possiamo procedere verso l’unione politica tutti insieme: è impossibile, perché approfondimento e allargamento erano, sono e saranno in contraddizione. In futuro o saremo di meno, e dovremo lavorare insieme di più per governare il caos, oppure saremo più estranei. Di sicuro, quando si tratta delle vicende europee, dobbiamo metterci in testa che non viviamo in un’epoca moderata, ma estremista, quindi può succeder realmente di tutto. Ma, anche se può succedere di tutto, l’Italia non può fare tutto.

 

E’ ancora il principio di Lippmann: il nostro spazio d’azione, per essere efficace, deve essere limitato. Per questo, la debolezza della strategia italiana, per come è stata delineata, non sta nella confusione tra la politica interna e la politica estera. Pensarlo e dirlo fa parte della nostra cappa di autolesionismo. E’ così per tutti gli altri paesi, non è che noi pensiamo alle scadenze elettorali mentre gli altri governi pensano a farsi mandare a casa, non prendiamoci in giro. Il problema sta piuttosto nel numero eccessivo di fronti aperti e nelle alleanze che ne derivano. Come insegna la vicenda di Barack Obama, ormai consegnata alla storia, chi si propone di change the way something works non ci riesce, mentre i risultati concreti possono avvenire, fuor di retorica, dentro il sistema. Accadrà così anche nell’Europa-negoziato: i risultati avverranno dentro il negoziato, spesso su dossier separati (con più o meno capitale politico), a meno di deflagrazione.

 

La nostra posizione rispetto all’Europa-negoziato è il punto centrale: l’Italia è indebolita da una distinzione tra interessi vitali, interessi generali e interessi trascurabili, che fa parte della logica dell’interesse nazionale. Questa è una distinzione essenziale tra la politica interna e la politica estera perché, se è vero che in politica interna un tema trascurabile può impadronirsi dell’agenda e diventare vitale, ingoiando tutto il resto, le dinamiche della politica estera e soprattutto della politica europea sono diverse. In particolare, l’aumento e la dispersione degli obiettivi e dei tavoli su cui si interviene indeboliscono il nostro potere negoziale.

 

In sintesi, l’Italia deve essere preparata sia a un grand bargain in cui tutti gli elementi sollevati trovano una soluzione accettabile grazie a un accordo politico generale, sia a operare in modo distinto e secondo una gerarchia degli interessi.
Proviamo quindi ad abbozzare una possibile gerarchia (che può essere rovesciata, ma solo da progetti che non mettano tutto sullo stesso piano). Il fronte energetico è un vaso di Pandora che non è il caso di schiudere. Il rapporto con la Turchia è un interesse elettorale tedesco: non si può deteriorare la vicinanza alla Germania sulla politica estera e l’immigrazione, ma è interesse dell’Italia aggiungervi uno sforzo straordinario verso Giordania, Libano e Tunisia. Visto che il riferimento al piano Marshall è stato utilizzato perfino da Schäuble, chiamiamolo pure “Piano Schäuble”. I nostri interessi vitali nel 2016 sono invece due: nell’ambito economico, la stabilità del nostro sistema finanziario e del nostro risparmio; una gestione adeguata della crisi migratoria, in vista dell’estate. Su questo occorre concentrare tutte le energie, con unità d’intenti. Sugli interlocutori, contare sulla debolezza politica degli altri – se si tratta di Germania e Francia – non è incisivo. Angela Merkel è il nuovo simbolo della volatilità politica in Europa, essendo passata in due mesi per il Financial Times da persona dell’anno a persona che non sarà più al governo alla fine dell’anno. Ma l’importanza della leadership, la ricerca di nuovi padri fondatori, la fame di discorsi churchilliani non devono farci dimenticare che Germania e Francia contengono uno “Stato profondo” e una visione degli interessi nazionali che sono riusciti, finora, a trovare una composizione capace di prescindere dal rischio politico. Lo “Stato profondo” è più forte della dialettica politica: con Marine Le Pen presidente, la Francia non diventerà certo una provincia della Federazione Russa. Per l’Italia, scommettere sulla deflagrazione della Germania non ha senso. Per noi il mondo dopo Merkel sarà peggiore. In caso di implosione o di “guerre” con la Germania, la sceneggiatura sarà scritta da Schäuble o da suoi epigoni, secondo il copione Kerneuropa, quindi il nostro obiettivo è non essere sbattuti fuori da euronuclei presenti e futuri, diventando parte attiva di un euronucleo compatibile con i nostri interessi.

 

 

L’equilibrio da trovare con Parigi

 

Il rapporto con la Francia è più complesso. Alla chiamata alle armi del mondo dopo Parigi l’Italia ha risposto con prudenza e con l’invito a non ripetere il disastro libico, a evitare i vuoti di potere che alimentano il caos. Il nostro rapporto controverso con la Francia viene, oltre che dagli ultimi effetti della presenza di Parigi nel Mediterraneo, dall’attivismo industriale francese, soprattutto di un francese. Il gruppo di Vincent Bolloré è noto in Italia soprattutto per gli investimenti in Generali, Mediobanca e in Telecom Italia. Quest’ultimo presenta ora come deuteragonista Xavier Niel, il quale ha annunciato il suo ingresso nella compagnia di telecomunicazioni il 29 ottobre 2015, casualmente due giorni dopo la visita del ministro dell’Economia Emmanuel Macron alla sua scuola di programmazione e tecnologia, École 4210. Ma Bolloré ha una geopolitica più ampia. La sua presenza nel “salotto buono” italiano fa spesso dimenticare il suo ruolo centrale nell’attuale Françafrique, visto che la maggior parte dei profitti del suo gruppo vengono dal settore trasporti e logistica, con la più grande rete logistica integrata del continente africano (con ricavi di 2,5 miliardi di euro nel 2014, in crescita dell’1,2 per cento nonostante le incertezze relative al settore minerario). In Africa, Bolloré è il maggiore attore privato in termini di forza lavoro, presente in 45 paesi, nonché il primo operatore per la partnership tra pubblico e privato. Anche questo è un aspetto da considerare per l’Italia che inserisce l’Africa tra le priorità della sua politica estera. Eppure, anche quando ci rapportiamo con la Francia, la verità è che si tratta sempre di noi, dello specchio dell’Italia, dei nostri interessi, dei nostri obiettivi.

 

Dobbiamo nuovamente fare un esercizio di distinzioni e gerarchie, procedendo a definire cosa è strategico per noi, perché se tutto è strategico, nulla è strategico. E allo stesso tempo dobbiamo chiederci: cosa vogliamo fare, nell’inevitabile consolidamento europeo di alcuni settori, come la difesa e le comunicazioni? Vogliamo perdere treni, come in passato? Vogliamo recitare un ruolo attivo? Se sì, quale? Per esempio, invece di limitarci a celebrare i nostri scienziati quando giungono al vertice delle classifiche dei libri o di istituzioni internazionali, potremmo promuovere la creazione di una Darpa (Defense Advanced Research Projects Agency) europea, un polo diffuso tra i paesi dell’euro dedicato a ricerca e alta tecnologia per la difesa, conseguendo tre obiettivi: in primo luogo, ragionare e agire sul rapporto tra tecnologia e potere a livello europeo, cercando in questo modo di affrontare l’enorme gap che ci separa dagli Stati Uniti in materia; in secondo luogo, realizzare l’unione dei ricercatori prima di quella dei servizi segreti, che chiaramente avverrà per ultima; infine, affrontare il tema della cybersecurity in modo più lungimirante rispetto alla creazione di nuove agenzie in Italia, evitando l’eccesso di riforme nell’intelligence, la proliferazione di enti e sottoenti nonché le polemiche personali.

 

Cos’è quindi l’interesse nazionale, per l’Italia di oggi? E’ uno sforzo di franchezza e maturazione nel metodo, che ci riguarda tutti (classe dirigente, media, opinione pubblica), perché tutti dobbiamo vivere il difficile passaggio sintetizzato da San Paolo: “Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato” (1 Corinzi 13,11). L’interesse nazionale è la passione inattuale per lo Stato, per l’efficacia delle sue istituzioni, per la “retificazione” con le realtà europee e internazionali. In questo senso, la sua costruzione ha sempre a che fare con la mappa del potere italiano e con il reticolato delle istituzioni formali e informali in cui, come è stato notato in riferimento alla Banca d’Italia e alla Farnesina, sono avvenuti alcuni cambiamenti significativi. Tra queste istituzioni dell’interesse nazionale nel sistema europeo vi sono anche i partiti. Da questo punto di vista, l’Italia ha perso un’occasione dopo il risultato delle elezioni europee del 2014 e nel corso del 2015, perché per varie ragioni il capitale politico-elettorale non si è trasformato nella rianimazione della socialdemocrazia europea. Un’impresa improba, ma che meritava molta più energia, anche per avere un rapporto più stretto con paesi come l’Austria, che svolgono un ruolo di prim’ordine nella crisi migratoria. Questa crisi, siccome riguarda i confini, dà del resto un senso di centralità a ogni paese che viene definito periferia. Ralf Dahrendorf, che negava la possibilità della democrazia oltre lo Stato ma lodava la “traducibilità” dell’Europa in cui viveva, ci ha sempre ricordato, nelle sue opere e nella sua vita, l’importanza del gesto di attraversare i confini, di andare oltre i confini. Questo gesto, in un’altra Europa, era in grado di tradurre le nostre differenze, invece di accentuarle. E tocca ancora alle istituzioni-ponte della democrazia, compresi i partiti politici e i parlamenti, compiere quel gesto decisivo di oltrepassare i confini senza negarli.

 

 

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