Rosy Bindi (foto LaPresse)

Rosy Bindi e la trasformazione dell'Antimafia nel santuario "delle cose che non si possono dire"

Giuseppe Sottile
Come chiameremo questi anni? Che cosa diremo di Rosy Bindi e dei cinquanta membri della Commissione ai quali il Parlamento ha affidato il compito di affinare gli strumenti per meglio combattere la mafia, con tutti i suoi traffici e i suoi boss?

Come chiameremo questi anni? Che cosa diremo di Rosy Bindi e dei cinquanta membri della Commissione ai quali il Parlamento ha affidato il compito di affinare gli strumenti per meglio combattere la mafia, con tutti i suoi traffici e i suoi boss? Che cosa resterà delle mille riunioni, dei mille verbali, dei mille e mille documenti accumulati negli archivi a testimonianza di un lavoro che, nelle intenzioni di deputati e senatori, avrebbe dovuto intimorire i reprobi e incoraggiare la costruzione di una società più onesta e più equa, bella quasi come una città del sole?

 

Sono cinquantatré anni che a palazzo San Macuto vive e regna la Commissione antimafia, con i suoi poteri e i suoi privilegi, con i suoi eccessi e le sue timidezze. Un tempo lunghissimo, oltre mezzo secolo, nel corso del quale sarebbe stato possibile risolvere non solo le questioni legate a una criminalità sempre più estesa e aggressiva, ma pure quell’irredimibile grumo teologico che va sotto il nome di Mysterium iniquitatis e che secondo l’Apostolo delle genti e alcuni santissimi padri della chiesa starebbe alla base della malvagità dell’uomo. Invece no. Dopo gli ardori delle prime inchieste e dei primi viaggi in Sicilia, dopo la lucentezza di alcune presidenze – prima fra tutte quella di Gerardo Chiaromonte – improntate sempre e comunque all’affermazione dello stato di diritto contro ogni tentazione emergenziale e inquisitoria, il fuoco dell’antimafia ha finito per consumare ogni slancio e oggi consegna alla storia un bilancio di grettezze politiche, contrabbandate per chissà quale missione sociale.

 

Peccato. San Macuto avrebbe potuto diventare il luogo di un dibattito alto, in grado di mettere il Parlamento nelle condizioni di approntare una legge moderna per contrastare ogni tipo di mafia, quella vecchia e quella nuova, quella dei picciotti e quella dei colletti bianchi. E’ diventato invece una sorta di circolo Pickwick a disposizione del moralismo di stato, buono per mettere sotto accusa oggi i grillini di Quarto e domani il Pd di Reggio Emilia: cosacce di ordinaria politicheria per le quali sarebbe bastato al massimo un talk show della più scalcagnata televisione di provincia.

 

E dire che, proprio in questa fase, non sarebbe mancato il terreno di indagine: c’erano da analizzare le ultime evoluzioni delle cosche, dalla Cosa nostra siciliana alla  ‘Ndrangheta e alla Camorra; c’era da guardare dentro le leggi esistenti e capire quali sono quelle che hanno funzionato e quelle che invece hanno complicato le cose; e c’era soprattutto da scandagliare gli apparati di contrasto, dalla magistratura alle forze di polizia, per vedere quali abusi e quali storture si sono nel frattempo calcificate e per verificare se dietro le bandierine dell’antimafia, sventolate dai ragazzini delle scuole, sono cresciuti potentati rapaci e lobby dai denti aguzzi e affilati.

 

Temi impegnativi, non c’è dubbio. Che la Commissione però ha cercato – tenacemente, ostinatamente – di affrontare nella maniera più innocua, senza mai mettere il ditino nell’acqua calda o il piedino nella pozzanghera. Anzi. Ha aperto le gran casse alla banalità dei luoghi comuni e ha bacchettato chiunque fosse arrivato lì per sostenere una tesi leggermente diversa da quelle costruite dall’Antimafia Antica e Accettata.

 

E’ doloroso ammetterlo, specialmente per chi ci ha creduto. Ma Rosy Bindi, con i suoi magnifici Cinquanta, lascia nelle mani aride e impietose della Grande Storia – e di chi, altrimenti? – una sola eredità: un libro che paradossalmente potrà intitolarsi “Dizionario delle cose che non si possono dire”. Ricordate quando si presentò a San Macuto il prefetto Giuseppe Caruso per denunciare ruberie e malversazioni attorno alle aziende e ai patrimoni sequestrati dalla magistratura ai boss e agli imprenditori in odore di mafia? Era il marzo del 2014 e il prefetto, che allora guidava l’Agenzia dei beni confiscati, anziché ricevere elogi e solidarietà, finì brutalmente sotto accusa: aveva detto, infatti, cose che non si potevano dire. Tanto che la presidente Bindi lo redarguì con il tono implacabile usato dal sinedrio quando deve cacciare un eretico dal tempio: parlò di “effetto delegittimazione”, definì le parole del prefetto “un’accusa generalizzata al sistema” e lasciò intendere che era quantomeno indegno avanzare sospetti su “magistrati che rischiano la vita”.

 

Da allora Giuseppe Caruso è rimasto nel cono d’ombra. Ma dopo un anno e mezzo la procura di Caltanissetta ha alzato la pietra dello scandalo nascosta tra le pieghe del palazzo di giustizia di Palermo e ha scoperto, proprio dentro la sezione Misure di prevenzione, un’allegra confraternita di giudici, commercialisti e avvocati che – pur saltellando da una manifestazione antimafia all’altra –  controllavano milioni di euro e sistemavano senza rossore parenti, amici e amici degli amici. Roba da far tremare i polsi.

 

Nel “Dizionario delle cose che non si possono dire” rientra pure la brutta esperienza vissuta a fine dicembre, sempre a San Macuto, da Salvatore Lupo, professore di Storia contemporanea  e studioso, tra i più autorevoli, del fenomeno mafioso. Il professore, asciutto e granitico come i suoi libri, ha accettato un confronto con la Commissione. Ma, come il prefetto Caruso, ha avuto la spudoratezza di dire cose che in quella sede non potevano essere dette: ha sostenuto intanto che nella sfida tra la mafia e lo stato ha vinto lo stato; e subito dopo si è azzardato a ventilare l’ipotesi che la fantomatica Trattativa, sulla quale i pubblici ministeri palermitani hanno voluto ad ogni costo imbastire un processo, sarebbe da considerare nient’altro che una montatura. Apriti cielo. La tollerabilissima Commissione  non ci ha visto più dagli occhi e sul capo dell’innocente professore si sono abbattuti i fulmini di Davide Mattiello – piemontese, deputato del Pd, nato e cresciuto nel cuore di Libera, l’associazione antimafia fondata da don Luigi Ciotti – che, con rapidità felina, ha sferrato contro quelle tesi blasfeme un attacco così sanguigno e così acido da non consentire repliche.

 

[**Video_box_2**]Del resto, l’associazione di Don Ciotti e di Mattiello – lo sanno pure i bambinetti degli asili comunali – è per la Commissione un altro dogma contro il quale non può andare nessuno, nemmeno uno di quei magistrati che nelle cattedrali dell’antimafia hanno ancora voce in capitolo. Si è avuta conferma poche settimane fa quando Catello Maresca, procuratore della direzione distrettuale di Napoli, ha sollevato in una intervista a Panorama pesantissimi dubbi su certi metodi adottati dai vertici di Libera per garantire alla holding potere e finanziamenti. Riapriti cielo: come si è permesso quel magistrato di dire una cosa che non si può dire? La Commissione, compatta e corazzata come una falange, è scattata subito in difesa di don Ciotti, ricevuto con tutti gli onori e invitato a dire ovviamente la sua. Mentre Maresca è stato lasciato fuori dalla porta come un cencioso, ubriaco di livore, che non sa nemmeno quello che dice.

 

L’ultima grande occasione persa dal circolo Pickwick di palazzo San Macuto risale a pochi giorni fa. A Catania un giudice per le indagini preliminari archivia una stanca inchiesta della procura su Mario Ciancio, editore e direttore del quotidiano La Sicilia, con una motivazione che avrebbe dovuto far rizzare i capelli a Rosy Bindi e ai colleghi che la affiancano: per applicare il concorso esterno, tanto caro ai militanti dell’antimafia chiodata, serve una legge che definisca nei dettagli perimetro e sostanza del reato.

 

Bene. Una commissione istituita proprio per ricercare i migliori strumenti legislativi da adottare nella lotta alle cosche, avrebbe dovuto convocare in quattro e quattr’otto quel gip e ascoltare quantomeno le sue ragioni. Ma per evitare il rischio che la dottoressa Gaetana Bernabò Distefano ripetesse cose che non si possono dire, i Cinquanta dell’Apocalisse hanno preferito disperdersi e attenersi rigorosamente a quanto descritto da Giovanni nel capitolo 18: “Le isole fuggirono e le montagne non si ritrovarono mai più”.

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  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.