Il prefetto di Roma Francesco Paolo Tronca (foto LaPresse)

Lode al prefetto Tronca che chiude il sipario sul Capodanno capitale

Alessandro Giuli
Perché Roma non ha nulla da giubilare. Tronca esemplifica in una veste emergenziale e passeggera la necessità di una dittatura post politica, plenipotenziaria e impersonale, che bonifichi durevolmente la Capitale dai suoi eccessi e dalla sua trascuratezza. Ma lo stato d’eccezione è concepito per non durare.

Capodanno senza il botto, in silenzio, il Circo Massimo lasciato in pace, muto nella sua latenza di fasti trapassati; nessun concertone sudaticcio con folle colanti per le vie del centro storico abbacinato da luminarie grevi; divieto d’assembramento per brute e immonde plebi straniere arrampicate sui marmi dei monumenti. Ma pace anche in periferia, come per un’onda di tranquillità che dall’ombelico dell’Urbe si propaga nei suoi recessi più esterni. Festeggiamenti privati, questi sì, ci mancherebbe, ma composti, lontani dalle cacofonie e sguaiataggini fantozziane degli ultimi decenni e decenni.

 

Troppo bello, vero? Infatti dubito che finirà così, malgrado le migliori intenzioni del prefetto romano Francesco Tronca, che con la scusa delle casse vuote sta cercando di svuotare anche le piazze capitoline in previsione del 31 dicembre sera. Risparmiarci un’altra notte di Valpurga a spese pubbliche è la cosa più sensata che potesse venire in mente al grigio e astuto uomo d’ordine precipitato a Roma dalle brume milanesi. Fosse per noi aggiungeremmo pure il coprifuoco, la legge marziale e pattuglie di cani lupo pronti allo scatto in ogni bivio e quadrivio, ma non si può avere tutto. Certo, se poi Tronca riuscisse davvero a vietare botti e fuochi d’artificio fai-da-te diventerebbe il sindaco perfetto di cani e gatti domestici, per non dire dei pennuti selvatici.

 

Fatta questa rinunciabilissima premessa da reazionario, la sensazione di fondo è che Roma non ha proprio nulla da giubilare, ma nemmeno ha bisogno di essere punita da leggi e divieti: si autopunisce nel modo peggiore perché il suo primo malanno – ripetiamolo – sono i romani.

 

[**Video_box_2**]Tronca esemplifica in una veste emergenziale e passeggera la necessità di una dittatura post politica, plenipotenziaria e impersonale, che bonifichi durevolmente la Capitale dai suoi eccessi e dalla sua trascuratezza. Ma, appunto, lo stato d’eccezione è concepito per non durare. E così la normalità acefala e pigra di questa Roma riprenderà il suo corso. Ma è una normalità rassegnata, stanca, esangue e senza riscatto all’orizzonte. Deve esserci un motivo se non si riesca a intravedere un solo candidato sindaco proveniente dalla così detta nomenclatura politica: tolto l’anti partitico Alfio Marchini (ma ci crederà veramente?), tolto Stefano Fassina che è un bocconiano tormentato con il cuore a sinistra e la predestinazione naturale alle sconfitte onorevoli, tutti gli altri sospettati fischiettano o capricciano, traccheggiano dissimulanti. Per la prima volta non s’indovina nemmeno il serico fruscio dei porporati avvezzi a fare e disfare trame e tutorati da oltre Tevere fin sul Campidoglio: hanno già il loro bel da fare, aggrappati come sono alla mobilia vaticana in via di dismissione per mano di Bergoglio… Morire per Roma, e perché mai? E così il Capodanno penitenziale vagheggiato da Tronca rischia di essere più che un castigo: è uno stato dell’essere, una sosta dell’anima romana in un evo di mezzo nel quale anche chi conserva un po’ di lumi si trattiene nell’ombra.

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