Il presidente del Consiglio Matteo Renzi (foto LaPresse)

Cervelli, non muscoli

Claudio Cerasa
Lo abbiamo scritto più volte e alla fine le cose sono andate come dovevano andare: se Renzi non si occupa del partito prima o poi sarà il partito a occuparsi di lui. Detto fatto.

Lo abbiamo scritto più volte e alla fine le cose sono andate come dovevano andare: se Renzi non si occupa del partito prima o poi sarà il partito a occuparsi di lui. Detto fatto. E il segretario del Pd ha finalmente capito che non si può cambiare l’Italia senza prima cambiare il Pd (“Change Labour to change Britain”, do you remember?). Bene. Ma se l’idea del presidente è davvero quella di prendere in mano il partito preoccupandosi soltanto dell’organizzazione, del controllo del territorio, della gestione dei circoli, della rottamazione di ciò che resta della ditta, e se la preoccupazione di Renzi è quella di puntare, per riprendersi il partito, sulla moltiplicazione dei culi di pietra a cui affidare gli ingranaggi della macchina del Pd, la strada sarebbe senz’altro quella sbagliata. I Rosato servono, ma non servono solo quelli, in questa fase serve la corteccia più che i soli muscoli. Perché se c’è un problema nel Partito democratico, e il problema c’è, non è solo il controllo militare della macchina ma è il controllo cerebrale sulla funzionalità e la trasmissione dei segnali politici che partono da Palazzo Chigi e arrivano fino al partito.

 

Renzi si era illuso di poter controllare e governare il Pd “semplicemente” governando il paese, e governando il partito con i collaboratori e lo staff di Palazzo Chigi, ma quel modello non è riuscito a piantare nel terreno le radici del renzismo. Ciò che è mancato in questi mesi al premier, ragione per cui la sua base sociale è sfilacciata, mobile, incerta, in continuo movimento, è un punto elementare e lineare. E’ che Renzi più che di un Nico Stumpo avrebbe bisogno di un Jim Messina, formidabile uomo chiave della macchina e della propaganda di Obama prima, e dei conservatori inglesi oggi. Uno con cui portare avanti non una battaglia organizzativa ma una battaglia culturale dentro il proprio partito, attraverso la quale coinvolgere  iscritti ed elettori del Pd (non sempre le due cose sono coincidenti).

 

Il vero punto di debolezza della leadership renziana, a pensarci bene, sta dunque qui: nell’illusione coltivata di potersi muovere da segretario, senza pensare che un vero capo del partito ha la necessità assoluta di convincere i suoi elettori della bontà delle scelte del suo governo. In questo senso servirebbe un Jim Messina a Renzi. Perché, nonostante le vittorie che in questi mesi sono state superiori alle sconfitte, oggi per il Pd – che ha perso la scintilla vitale che aveva durante la sua luna di miele con gli elettori – vale ancora la profezia fatta due anni fa su questo giornale dal professor Michele Salvati, poco prima della vittoria alle primarie del Pd dell’ex sindaco di Firenze. Prendere appunti, please: “Il successo di Renzi alle recenti feste democratiche somiglia molto a una ciambella di salvataggio che un popolo stufo di perdere accetta di indossare un secondo prima di affogare. Ma il vecchio sindacato di controllo ex comunista ed ex democristiano è ancora forte, molti quadri intermedi e militanti sono ancora prigionieri di concezioni di sinistra che non si adattano ai tempi in cui viviamo, e io sarei molto prudente nel dire che da qui ai prossimi mesi per Renzi la corsa alla conquista del centrosinistra possa essere, come dire, una bella e spensierata passeggiata di salute”.

 

[**Video_box_2**]Non lo è stata e non lo sarà, una facile passeggiata, perché Renzi ha bisogno non di quadri che tengano in ordine il partito (non solo, per lo meno) e che si preoccupino solo di far rotolare teste per provare a tornare ai fasti della prima rottamazione. Il premier segretario, piuttosto – che ha l’occasione storica di poter mettere a frutto ciò che nessun leader di centrosinistra è mai stato in Italia, ovvero essere contemporaneamente segretario del partito e presidente del Consiglio – deve preoccuparsi di convincere i militanti, di convincere gli apparati, di convincere i quadri, di organizzare incontri su incontri sul territorio non per concedere qualcosa alle minoranze interne che sognano di trasformare il Pd in una versione aggiornata della ditta, ma per portare nei circoli, nelle scuole, nelle sezioni, alle feste dell’Unità, un messaggio diverso da quello che vi è oggi, la “sopportazione”, che è il vero stato in cui si trova spesso il militante del Pd di fronte a Renzi, del sopportiamo fino a che non arriva uno mejo. Bisogna accendere il trasmettitore tra il Palazzo di governo e il Palazzo di partito, portare il messaggio nelle teste dei militanti.

 

La forza di Renzi è quella di essere un leader che si trova a suo agio con il voto d’opinione ma per cambiare il paese non basta quello, tocca prima cambiare le teste del Pd. Missione possibile, a condizione di non credere che il problema del Pd sia, come direbbe Stefano Benni, solo un problema tennico. La rottamazione, in fondo, si può continuare solo così.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.