Pippo Civati, poco prima di andare in onda alla trasmissione "Otto e mezzo" (foto LaPresse)

Noio Podemos imitàr

Salvatore Merlo
Tsipras e Spinelli, Cameron e Fitto, Sarkozy e Fini, Bertinotti e Marcos, Kennedy e Veltroni, e ora Fassina, Civati, Landini. Benvenuti nella civiltà della clonazione. Indagine sulla tragicomica politica del replay.

Scatenati, famelici, i politici italiani non da oggi addentano indiscriminatamente l’immensa torta della politica estera, e se c’è un leader che poniamo vinca le elezioni nella più oscura circoscrizione della più oscura nazione del globo, ecco che a Roma c’è subito qualcuno che ne copia i gesti, gli accenti e naturalmente, come faceva Alberto Sordi in “Fumo di Londra”, o come faceva Walter Veltroni con John Kennedy, il modo di vestire. Così gli italiani ancora non sanno nemmeno pronunciare la parola “Tsipras” associata alla parola “lista”, hanno appena fatto in tempo a capire che Raffaele Fitto s’ispira a David Cameron, niente meno, che già si affacciano sul prolifico labirinto nazionale il nome esotico di Podemos e il codino di Pablo Iglesias. E tutto ciò si specchia nel turbinio scissionista del Pd e in particolare nei volti di Pippo Civati e di Maurizio Landini, e poi di Stefano Fassina e di Alfredo D’Attorre, che dal Pd, dopo le elezioni regionali, pare proprio che se ne andranno. E per fare cosa? “In Italia c’è bisogno di una Podemos”, ha per l’appunto suggerito loro Fausto Bertinotti, cioè quell’elegante signore che a sua volta s’ispirava al sub comandante Marcos, lui che la sinistra, zampettando d’ispirazione in ispirazione, dopo averla consegnata al fatale modello tedesco della Die Linke, l’ha portata anche fuori dal Parlamento nelle tragiche elezioni del 2008.

 

L’audacia dei politici italiani, la loro inventiva, diciamo pure il loro genio, si rivela in quella che si potrebbe chiamare la civiltà della clonazione o del replay, fenomeno tendente a una comica divaricazione tra modello estero (di successo) e imitatore strapaesano (perdente). La spelacchiata meccanica si conclude di solito con il suicidio politico, l’eutanasia verrebbe da dire, dell’emulo, evento che, sebbene doloroso, non si è mai tuttavia rivelato privo di una sua crepuscolare grandezza, come capitò a Sergio Cofferati quando s’innamorò del brasiliano Lula e sembrava dunque dover conquistare il mondo, la sinistra e l’operaismo tutto, ma finì sindaco di Bologna. Marionette in bilico sui trampoli di parole altrui (“si può fare, yes we can” di veltroniana memoria) e su grucce di altrui estetiche (memorabile Rutelli: “Ci sono similitudini importanti tra la situazione italiana e quella dei democratici americani”), per i politici italiani imitazione è sinonimo di legittimazione, ma anche di estinzione, di fiasco, di flop.

 

Così, sentendo parlare di Civati e di Fassina, di D’Attorre e di Landini, come di temibili concorrenti a sinistra di Renzi, pensavamo ingenuamente che avessero messo a punto un congegno politico inedito, una contromossa sensazionale, una sorpresa tale da spiazzare completamente l’avversario. Ah, tu vieni sotto con la spada persiana? E io ti frego con lo spray al peperoncino! E invece la sorpresa sta nel capire che non c’è nessuna sorpresa, ma Podemos. E ciascuno di loro, individualmente, è senza dubbio convinto della propria missione, pieno d’entusiasmo, e crede che prima di lui nessuno abbia mai veramente capito i modelli stranieri, come quel Sarkozy che alla stregua di un superalcolico diede alla testa a Gianfranco Fini portandolo a deragliare fuori dal Pdl, come John Kerry per Giuliano Amato, o come Giscard, come Mitterrand, come Tsipras, modelli che se non hanno condotto l’imitatore al disastro, sono stati tutti immancabilmente e cinicamente buttati via dai loro sfruttatori non appena le loro grazie sono appassite.

 

E senza doversi necessariamente spingere al paradosso di Kraus, secondo il quale nulla incita all’imitazione quanto il cattivo esempio, si può forse dire che quei modelli sono esistiti perché i politici italiani avessero modo di specchiarsi nell’identità di qualcun altro per ritrovare la propria e darsi così un coraggio e una forza che non avevano. La politica è creazione di molti e moltiplica quindi mostruosamente le possibilità di rimescolamenti e classificazioni, suscita immagini e straordinaria fioritura di esempi d’ispirazione, ma la vera leadership politica sta tuttavia nell’originalità e non in tutte le possibili letture e riletture, variazioni, distorsioni e imitazioni di un fenomeno. Quando c’è un leader vero, questo non è mai una copia, non lo era Berlinguer, che cercava la via europea al comunismo e dunque era un imitato non un imitatore, ed erano originali anche Togliatti con la sua doppiezza e Andreotti con la sua ambiguità, che era poi la stessa di Moro e di Craxi nell’ossimoro di una politica estera che riusciva a essere insieme filo israeliana e anche filo araba. Persino Berlusconi ha avuto degli imitatori stranieri, e nel bene e nel male è stato esportato e studiato ovunque come un fenomeno (non a caso a Bruxelles ancora qualcuno dice “non fare il Berlusconi!”), così come Mussolini non fu l’allievo ma il tragico maestro di Hitler, e come Renzi ha inventato il codice della rottamazione e sul palco di una festa dell’Unità a Bologna, un anno fa, impose ai leader della sinistra europea, al francese Valls e allo spagnolo Sànchez, la grammatica della camicia bianca come liberazione dall’archeologia e dalla prigione dei simboli comunisti.

 

[**Video_box_2**]Adesso Fassina sta preparando dei “comitati per il lavoro”, Landini ha pronta una “coalizione sociale” da presentare il 6 e 7 giugno, Civati sta scrivendo una lettera appello all’unità di tutto questo sfiliacciato mondo della sinistra che si tiene unito nella contrapposizione a Renzi. Il contenitore, il simbolo, il marchio, il partito unico e registrato all’indomani del successo di Podemos in Spagna si chiama così: “Possibile”, quasi una traduzione letterale dallo spagnolo, un nome che ha il potere di accendere all’istante, sulla scia del voto a Madrid e Barcellona, trentasei canali semantici in alta definizione, come quando Massimo D’Alema nel 2004 s’era convinto che John Kerry avrebbe battuto George W. Bush e dunque si mise a imitarlo, fino al parossismo di un indimenticabile seminario in cui a Roma si chiuse (per otto ore!) nella stessa stanza con i consiglieri elettorali del candidato alla Casa Bianca. “Stiamo costituendo un movimento inedito e diverso dal solito”, ha detto Civati. Sicuro sicuro?

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.