Il premier Matteo Renzi (foto LaPresse)

Anticorruzione e populismo penale

Claudio Cerasa
Alzare solo le pene è un trucco per alimentare il processo mediatico. Ormai è un tratto preciso del renzismo di governo e la regola suona più o meno in questo modo: la via migliore per nutrire la pancia affamata dell’elettore indignato è quella di dare una risposta di origine penale.

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi, come ha ammesso con trasparenza il prossimo ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio in un libro appena uscito per Marsilio, per il modo in cui riesce a penetrare, usando le parole giuste, non solo nella testa ma anche nella pancia degli elettori, sotto molti aspetti si può considerare un populista puro, e non c’è dubbio che per essere un buon politico, per farsi capire e apprezzare e persino per riformare, sia necessaria oggi una buona dose di sana demagogia. Il populismo di Renzi da un po’ di tempo a questa parte si intreccia però con un’altra forma di demagogia che non ci sembra sana, tutt’altro, e che ci pare birichina e persino pericolosa. Potremmo chiamarlo così: il populismo penale.

 

Ormai è un tratto preciso del renzismo di governo e la regola suona più o meno in questo modo: la via migliore per nutrire la pancia affamata dell’elettore indignato – visibilmente provato da un fatto di cronaca che ha turbato le coscienze dell’opinione pubblica – è quella di dare una risposta di origine penale. Ovvero: più pene per tutti. Ieri è successo di nuovo, è successo pochi giorni dopo un altro aumento di pene (quelle relative all’omicidio stradale), è successo con due testi approvati al Senato ed è successo sia per il falso in bilancio sia per la legge anticorruzione, e in entrambi i casi la rivoluzione della maggioranza renziana è stata una e solo una: aumentare le pene. Si potrebbe dire, a voler essere pignoli, che, specie per la corruzione, le pene esistono già, sono anche alte, prevedono da tempo la reclusione fino a 15 anni o 20 anni se vi sono annessi altri reati e che il modo migliore per combattere la corruzione (lo ricordava bene Carlo Nordio, magistrato, ieri sul Messaggero) non è alzare le pene ma combatterla alla radice, snellendo la macchina burocratica. Si potrebbe dire tutto questo e molto altro. Ma il punto importante ci sembra diverso ed è questo: per combattere un reato occorre che sia garantita la certezza della pena e non occorre l’introduzione di nuove sanzioni che, senza certezza della pena, faranno la fine di un palloncino bucato. “Negli ultimi decenni – ha detto con merito Papa Francesco a ottobre 2014 durante un intervento all’Associazione internazionale del diritto penale – si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina”. Per carità: bene impegnarsi contro la corruzione, figuriamoci, ma sarebbe bene farlo senza sottovalutare un aspetto importante: che giocare con il populismo penale è un modo come un altro per offrire cartucce al circuito del processo mediatico. Ne vale la pena?

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.