Matteo Renzi (foto LaPresse)

Perché lo scontro Renzi-Lupi mette a nudo i peccati originali del governo

Salvatore Merlo
“Credo sia assolutamente doveroso da parte di un ministro rispondere in Parlamento alle legittime domande che sono sorte dall’inchiesta di Firenze”, ha detto Maurizio Lupi. E Alfano: “Lui ha la nostra piena fiducia”.

Roma. “Credo sia assolutamente doveroso da parte di un ministro rispondere in Parlamento alle legittime domande che sono sorte dall’inchiesta di Firenze”, ha detto Maurizio Lupi. E Angelino Alfano: “Lui ha la nostra piena fiducia. Risponderà prestissimo in Parlamento”. E insomma mercoledì pomeriggio questi due ministri e compagni di partito devono essersi visti al Viminale con quella stessa complicità che avevano anche il gatto e la volpe mentre tentavano di raggirare Pinocchio con l’albero dei soldi, un po’ di furbizia e un po’ di disperazione. Ma in questa, che non è una favola ma un pasticcio che mette in difficoltà il governo, il miraggio degli zecchini d’oro si chiama “informativa al Parlamento”. E così Lupi e Alfano provano a vestire da Pinocchio, dunque da sprovveduto, Matteo Renzi, il presidente del Consiglio che per adesso tace, osserva il magheggio, sta a vedere l’effetto che fa, ma intanto lascia che siano gli altri a parlare. E dunque: “La politica ha le sue regole”, ha scandito Luigi Zanda, il capogruppo del Pd in Senato, “a volte, per le dimissioni, è sufficiente una responsabilità oggettiva”. Ed ecco il ministro Giuliano Poletti, algido: “In queste situazioni le persone valutano la loro situazione e prendono le loro decisioni”. Ma Lupi pare non voglia (non possa) dimettersi e dopo una notte confusa, tra ringhi telefonici, dubbi esistenziali (“dovremmo uscire dal governo?”) e timori, il Nuovo centrodestra di Alfano e De Girolamo, di Schifani e di Quagliariello, nella pienezza dell’infelicità, ha riscoperto il cameratismo dei militanti, la comunione delle vittime, il sentire comune di chi vive con poche speranze: “Se Lupi si dimette facciamo prima a chiudere bottega. Sarebbe una sconfitta irrimediabile”. E allora ecco la strategia, compressa in un eccesso d’inquietudine: bisogna vedere che effetto faranno, domani, le dichiarazioni di Lupi in Parlamento, e bisogna pure mascherare, intanto, la paura con l’ostinazione: “Se Renzi vuole le dimissioni si assuma la responsabilità politica di chiederle aprendo la crisi, mormorano tra loro”. Ma davvero arriveranno a tanto?

 

I sondaggi sono quello che sono, il 3 per cento poco più o poco meno: finita questa legislatura per il Nuovo centrodestra si spalanca l’incognito, con le sue insidie elettorali, la paura di scomparire. E insomma tutta la forza del partito di Alfano e di Lupi è qui e ora, nei gruppi parlamentari che con i loro voti, determinanti, rendono meno perigliosa la navigazione di Renzi e della sua maggioranza. Dunque Alfano ha bisogno di Renzi, ma Renzi – e Alfano lo sa – ha bisogno dei deputati e dei senatori del Nuovo centrodestra per approvare le sue riforme: “Altrimenti dove va? Chiede i voti a Grillo o a Verdini? Auguri!”.
E allora ecco il tira e molla, il mezzo bluff, l’evanescente minaccia d’una crisi di governo che nelle parole di Alfano non si fa mai concreta, ma resta obliqua, sospesa in quel “Renzi non mi ha mai chiesto un gesto spontaneo” pronunciato mercoledì mattina da Lupi con il tono d’un’allusione, di uno squillante non detto: “Se vuole che mi dimetta deve chiederlo e affrontare le conseguenze”. Ed è tutto un gioco a “trasiri e nesciri”, ad entrare e uscire, come insegnavano gli antichi maestri della dc in Sicilia, i maestri di Alfano, perché allo stesso modo sono oblique, dunque non richieste, anche le dimissioni di Lupi da parte di Renzi: il presidente del Consiglio non parla, ma si fa capire bene quando vuole. “Sono tranquillo. Il governo mi appoggia sicuramente”, dice Lupi, mentre Alfano ripete come una litania che “Lupi non ha pensato alle dimissioni, ma noi e lui riteniamo corretto non perdere tempo e accelerare i tempi dell’informativa in Parlamento”. Ed è facile indovinare in quale clima arido, desertico, questa volontà di resistenza faccia vivere il partito: né rabbia né pianti né disperazioni, c’è solo la rigida ostinazione di chi si sente sconfitto.

 

[**Video_box_2**]Se Lupi si dimette è la fine, il Nuovo centrodestra, già attraversato da malesseri, mugugni, invidie, timori e ambizioni frustrate, presto o tardi esploderebbe, per lasciare che i suoi detriti vadano a condensarsi dove possono, un po’ in Forza Italia, qualcuno nell’Udc, altri nel Pd… Ma se Lupi non si dimette, forse è finita comunque. Ed è infatti con gaiezza maligna che gli avversari del governo, anche quelli che siedono tra i banchi della maggioranza, e persino dentro il Pd, nella sinistra, a mezza bocca ritorcono la questione morale contro il segretario del loro partito. E infatti non c’è solo Grillo, che per fortuna di Renzi non sembra aver capito cosa succede, né ci sono soltanto Giorgia Meloni e la Lega a chiedere la sfiducia. Ecco Susanna Camusso: “Questo governo dovrebbe decidere un atteggiamento univoco rispetto al rapporto che c’è tra le inchieste e le singole persone: dalla richiesta di dimissioni per una telefonata a quanto si è fatto finta di niente rispetto a procedimenti aperti”. E insomma Renzi si trova un Alfano nell’occhio. Un po’ non sa, e un po’ non vuole toglierselo. Ma più tempo passa più il fastidio rischia di trasformarsi in una seria congiuntivite.

Di più su questi argomenti:
  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.