
IL FIGLIO DI SAUL
Da quando fu presentato al festival di Cannes, lo scorso maggio, “Il figlio di Saul” ha cambiato statuto. E’ passato dalla categoria “film di regista esordiente che ha avuto l’onore del concorso, parla dell’Olocausto” a “film candidato all’Oscar come miglior film straniero, la sorpresa dell’anno, imperdibile anche per chi al cinema non mette mai piede”. Natalia Aspesi si è spinta al limite estremo – “un film che vorremmo rivedere” – e non è certo questo il caso, pure l’entusiasmo ha un limite (il sunto “un padre che resiste all’orrore della Shoah” è comunque utile per piazzare “Il figlio di Saul” in zona “La vita è bella”). A Cannes era il film di un regista ungherese sconosciuto, interpretato da un attore ungherese sconosciuto, e c’era lo spazio per dire “mi piace” o “non mi piace” (si era divisi a metà, tra chi era uscito sconvolto e chi era uscito freddino). Ora è più difficile risalire la corrente, ci proveremo lo stesso. Auschwitz–Birkenau, anno 1944 (le truppe sovietiche sfondarono le porte del campo di concentramento il 27 gennaio dell’anno successivo, data scelta dall’Onu nel 2005 come Giorno della Memoria). La macchina dello sterminio funziona a pieno ritmo, affidata ai Sonderkommando: prigionieri con l’incarico di accompagnare alle docce assassine altri prigionieri. Tra loro c’è Saul: crede di riconoscere in un ragazzino – rimasto miracolosamente vivo e prontamente giustiziato - suo figlio, cerca nel campo un rabbino per dare al cadavere ebraica sepoltura. Le camere a gas non si vedono mai, capiamo quel che sta succedendo quando gli addetti, assieme a Saul, portano via i vestiti a mucchi. La ricerca è spasmodica, lo sfondo sempre sfuocato, o vediamo la faccia del protagonista o ne vediamo la nuca. Non è che non riusciamo a riconoscere un’idea interessante quando la incontriamo. Non siamo neppure all’oscuro dei dibattiti sulla rappresentabilità dell’irrappresentabile (ha senso far dimagrire un attore, mettergli il pigiama da prigioniero, oppure bisogna seguire la via indicata da Claude Lanzman in “Shoah”?). E sappiamo che i registi furbi sanno cavalcare questo e altro. Il partito preso poteva funzionare, aveva già le sue lodi incorporate. La realizzazione cozza con i fondamentali del cinema: l’attore Géza Röhrig, al suo primo film (vive a New York dove fa il poeta), è più espressivo di nuca che di faccia, nessuno è patito abbastanza.


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