
DISCONNECT
In “American Hustle” di David O. Russell vediamo gente che allunga un assegno da cinquemila dollari per ottenerne cinquantamila in prestito (“è così facile farsi dare soldi da gente disperata”, commenta Amy Adams, nella parte di Lady Edith “che ha relazioni bancarie, naturalmente siamo molto selettivi”). C'era gente che comprava scioglipancia da Vanna Marchi, che tutto era men che magra: di cos'altro avevano bisogno per capire che la crema non funzionava? Le carte di credito venivano clonate anche quando c'era la macchinetta per stampare la ricevuta, in doppia copia con carta carbone. La dipendenza dai guru, dai santoni e pure dai gruppi di supporto nasce con i guru, i santoni e i gruppi di supporto (solo gli ultimi sono un'invenzione recente). Le coppie non si parlavano neanche prima dei social network e perfino della tv. Il ricorso al dialogo che tutto rappezza esiste solo nella testa degli psicologi: più spesso aumenta i rancori invece di placarli. Quindi, per favore, non diamo tutta la colpa a internet: eravamo creduloni, narcisi, distratti, inclini a cadere nelle trappole anche prima di passare la giornata davanti allo schermo dei computer. Le intenzioni del regista – lo si capisce dal titolo – sono didattiche: suggerisce di staccare la spina per riscoprire i semplici piaceri di una vita sconnessa. Come se là fuori nel mondo reale certe spiacevolezze – prostituzione, tradimenti, imbrogli, giornate che non finiscono mai, incomprensioni, bugie, doppi giochi, manipolazioni, velenosi pettegolezzi da ufficio - non esistessero. Henry Alex Rubin - figlio di madre francese e di padre storico dell'arte, giusto per fornire alla sua biografia un tocco di pensosità europea, costruisce “Disconnect” sulla falsariga di “Crash”, sopravvalutata opera moraleggiante di Paul Haggis. Qui i personaggi, almeno all'inizio, sono più interessanti e le storie meglio intrecciate. Gli attori – da Jason Bateman a Hope Davis – sono ben diretti. Lo stilista Marc Jacobs debutta nella parte di un pappone che offre soldi e riparo a giovanotti, in cambio di prestazioni da chat room porno. I diciassette minuti di “Noah”, girato dai due giovanotti canadesi Walter Woodman e Patrick Cederberg, raccontano la vita in rete con più intelligenza. I guai succedono lo stesso, e se oltre a godere la trama vogliamo ricavarne un messaggio sta a noi deciderlo.


Il Foglio sportivo - in corpore sano
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