
VENERE IN PELLICCIA
"Vantarsi di un movimento di macchina è concesso soltanto alla scuola di cinema, e solo al primo anno di corso”. Fate girare tra i registi e aspiranti tali al Festival di Roma, dove qualche aspirante gareggiava per aggiudicarsi il Marc'Aurelio d'oro, o qualche premio per gli attori che hanno la faccia immusonita dalla prima all'ultima scena. E' Roman Polanski che lo dice, in un'intervista appena uscita su “Les Inrockuptibles”. Aggiunge: “Ho sempre aspettato questo momento. Ora le videocamere costano poco e sono a disposizione di chiunque, come il computer o la penna per un romanziere. Capiranno che fare bei film non è per niente facile”. Lui ci riuscì al primo colpo, con “Il coltello nell'acqua”, girato a bordo di una barca: coppia in vacanza, terzo incomodo tenebroso e fascinoso. Non si vantava allora delle proprie inquadrature, figuriamoci se lo fa dopo aver compiuto gli ottanta. Nel resto dell'intervista ricorda il suo produttore Bob Evans (figlio di un sarto, fece la fortuna di Francis Ford Coppola scritturandolo per “Il padrino” e rifiutando il primo montaggio: era troppo lungo e non si sentiva il profumo del sugo con le polpette). Racconta quando fuggì a sei anni dal ghetto di Cracovia, per poi ritrovarsi nella Polonia comunista e antisemita, e fuggire di nuovo verso gli Stati Uniti (scapperà anche da lì, e ha vissuto qualche mese agli arresti domiciliari in Svizzera: la villa era lussuosa, la cavigliera elettronica era di serie). “Venere in pelliccia” – con riferimento a von Sacher-Masoch, l'austriaco che voleva la consorte in frustino, stivaletti e pelliccia sulla carne nuda – è il suo ultimo film. Bellissimo, divertentissimo, intelligente, autoironico, crudele nella guerra dei sessi (ma con la leggerezza di certe commedie sofisticate). Due personaggi in scena: un regista intellettuale che cerca la sua Wanda; un'attrice poco intellettuale che quando vede frustini e pellicce pensa al porno. Non è che non vuole spogliarsi. E' che preferisce chiamare le cose con il nome loro. Polanski mette in scena un testo teatrale di David Ives (molto premiato, come “Il Dio del massacro” di Yasmina Reza, da cui veniva “Carnage”) e regala a Emmanuelle Seigner un ruolo fantastico. Non sapevamo fosse così brava, in un attimo passa dal tono svagato dell'ignorantona a un francese raffinatissimo. Accadeva prima del disastroso doppiaggio italiano – e stavolta riportiamo proteste altrui (a noi è mancato il coraggio di rivederlo dopo aver constatato i danni già nel trailer).


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