BIANCANEVE

Mariarosa Mancuso

    In attesa della principessa Merida made in Pixar, munita di arco e frecce per cacciare agli orsi (l'assenza del diadema sui riccioli rossi già tormenta gli esperti di marketing: si venderanno o no le bamboline?), il video clipper Tarsem Singh offre la sua versione della fiaba. E a luglio si annuncia “Snow White and the Huntsman” di Rupert Sanders, con Kristen Stewart in cerca di rilancio dopo la saga vampiresca: alleata con il cacciatore che la dovrebbe abbandonare nel bosco, muove guerra alla matrigna. L'empowerment di Biancaneve e delle sue favolose consorelle era cominciato nella remota e sempre strapazzata epoca vittoriana, come possiamo leggere in “Draghi e principesse – Fiabe impertinenti dell'800 inglese” (da Marsilio). “Tutti i principi che conosco sono dei tali sciocchini! Perché devo farmi salvare da un principe?”, chiede una di loro, già immaginando il goffo giovanotto di questo film. Perfetto contraltare della damigella in pericolo: in cerca di avventure con uno scudiero appena un po' più sveglio, si fa rapinare e appendere per i piedi dai giganti (in realtà, nani trampolieri), beve filtri d'amore che lo trasformano in uno scodinzolante cagnolino, e forse sarebbe servita qualche altra lezione di scherma. Ogni occasione è buona per farsi strappare la camicia e apparire seminudo al cospetto della matrigna assatanata che invoca qualcosa per coprirlo e allunga le sue grinfie matrimoniali. Sono Julia Roberts, ghignante e vestita da Eiko Ishioka con abiti monumentali, e Arnie Hammer, statuario figaccione malamente ricoperto di rughe in “J. Edgar” di Clint Eastwood. Assieme a Nathan Lane, esattore delle tasse nonché segretario particolare e vittima designata delle ire regali, per non parlare dei sette nani ribaldi, invadono con gioia dello spettatore lo spazio che spetterebbe alla principessina spodestata Lily Collins, con clamorose sopracciglia nere e cappellino da cigno (già sfoggiato da Bjork quando al festival di Cannes accompagnò “Dancer in The Dark” di Lars Von Trier). Tarsem Singh mostra il suo debole per Bollywood (che approviamo incondizionatamente) e per l'estetica camp (anche questa di nostro gusto). L'architettura è fusion, tra una reggia scopiazzata da Anton Gaudì e i villaggetti russi ai tempi degli zar, con una tremenda scivolata fantasy nella casina galleggiante che ospita lo specchio.