Foto tratta dalla pagina Facebook Roma Atlantico Live
Lo show di Niccolò Contessa
Ai piedi del palco dei Cani la rivoluzione non si fa più, ma ci si sente vivi
Tra visual raffinati e canzoni senza tempo, Niccolò Contessa trasforma un concerto a Roma in uno spazio emotivo condiviso
Niccolò Contessa è il re tranquillo di una musica romana serena e intelligente. Lo si capisce partecipando a uno della serie di concerti che ha tenuto nell’hangar dell’Atlantico della Capitale, accompagnato dall’attuale versione dei Cani, la sua band, magnifica macchina di ritmo e armonia che gli permette di mettere in sequenza pezzi vecchi e moderni del suo repertorio, alternando ballate languide e poderosi latrati punk, col corredo elegantissimo di visual mixati live che svariano tra sofisticate soluzioni grafiche e citazioni retrò da cinefili.
Sul palco Niccolò non va oltre un solo “Grazie” in tutto il set ma è concentrato nel condurre i giochi nel modo migliore e nel sorvegliare l’intonazione di una voce che col tempo si è fatta più sicura e matura. Anche il pubblico dell’ennesimo sold out è straordinariamente omogeneo, quasi-trentenni e quasi-quarantenni come lui, dall’aria pacatamente hipster, con una confortante percentuale femminile, piccoli gruppi, eskimo, capelli sciolti, barbe e tanti solitari anche perché, come mi spiega un amico, se sei di Roma e stai traversando una crisi sentimentale o magari la tua tipa o il tuo tipo ti hanno mollato, non esiste esercizio più rinfrancante che partecipare a un live dei Cani. E intanto la band sul palco per un’ora e mezza pompa un sound che possiede una cifra misteriosamente contemporanea, insomma che ha la capacità di porsi come adeguato, adatto e coerente con ciò che si è vissuto nel resto della giornata, in questo tempo e in questa città in particolare. E Contessa conosce l’arte di pronunciare le parole, anzi le frasi giuste, esemplari per descrivere una condizione a spanne condivisa – perché “Parioli” è un’idea e uno stato, ma senza esagerare, poi si va oltre, fortunatamente – insomma quando si ha una certa età e si va avanti con determinate prerogative, che poi si direbbe sia da sempre il suo intento artistico: rappresentare in musica quel che è lui e che ha dattorno, col più classico, assodato spirito del narratore, che distingue tra il valore del distacco e i rischi del coinvolgersi o dell’abbandonarsi. Già: il controllo.
Guardandolo mentre è in scena viene da pensare che per lui sia il tema e la prima delle preoccupazioni, ovvero che tutto vada come ha pianificato e previsto, che il suo spettacolo prosegua la sua corsa lubrificata di canzone in canzone, tracciando una disegnatissima sinusoide mentale che richiama in mente quei paradossali show di migliaia di droni che volano in sincrono e disegnano geometrie e messaggi vari, spesso camp eppure coinvolgenti al limite dell’involontario. Ecco il nuovo show dei Cani è cosi, e francamente è una delle cose da non perdere della musica italiana di questo tempo, e alla fine ci si portano verso casa quei rombi e quei gemiti dei tre sintetizzatori che lavorano all’unisono, nemmeno abitassero dei box della formula uno, arrotolandosi su un formidabile battito di tamburi e preparando il terreno per la visceralità armonica di Niccolò, cantarci le dubitabili imprese di un cacciatore d’affetti e d’attenzioni. Qualcosa ancora va detto sull’atmosfera generale di questa sera di musica di fine autunno, oltre il confine mentale del Palaeur: quel che è memorabile, inatteso e sorprendente è la calma rilassata, si direbbe quasi appagata che regna tra le migliaia di convenuti ai piedi del palco dei Cani. Nemmeno fosse una pellicola distopica, una di quelle sottilmente angoscianti ambientate nella cittadina dove il tempo si è fermato, si direbbe che stasera nessuno abbia più niente da chiedere oltre lo stare là, all’imbocco della notte umida, in una calma diffusa e condivisa, quasi che l’esperienza sia stata l’arrivarci e il ritrovarsi e adesso sia sufficiente stare, finché dura la musica. Il tempo sospeso di una tribù senza particolari etichette esposte, eppure con un’identità tenace e intima, di cui Contessa è il cronista autorizzato, a quasi 40 anni e perché “crescere” è il nocciolo delle storie che canta, senza scomporsi quasi mai, se non per intonare qualche mantra purificante. Come lui oggi rappresentano Calcutta e Venerus e Bianconi, tutti collocati in questo grande mezzo tranquillo, dove la consapevolezza dei limiti c’è, ma in fondo è elaborata. Qui non si farà la storia e di rivoluzione nessuno parla più. Ma si è molto più vivi del previsto, perché ci si riconosce e si conosce un modo di stare insieme senza dar retta alle pubblicità. Niccolò li chiama gli ultimi romantici, a guardarli sono più del previsto e si sono dati placido raduno qua stasera. Indubbiamente non c’è che da dargli ragione.