Jason Pierce fondatore degli Spiritualized suona a La Prima Estate. Lido di Camaiore, nel 2025 (Elena Di Vincenzo via Getty Images) 

l'intervista

Chiacchierata con Jason Pierce degli Spiritualized, l'artista riluttante che continua a inseguire l'impossibile

Raffaele Rossi

Dal culto di "Ladies and Gentlemen…" al ritorno al Barezzi Festival di Parma, il musicista rivendica il bisogno di reinventarsi. I social, la musica in streaming, la ricerca di nuovi territori sonori e di un rapporto col pubblico che lo spinge ancora sul palco

“La musica non si ferma. Anche quando decidi di prenderti una pausa, lei continua da sola, ti attraversa. A un certo punto della mia carriera pensavo davvero di essermi fermato. Poi, ancora oggi, mi ritrovo a canticchiare melodie al telefono senza nemmeno accorgermene”. Jason Pierce, mente degli Spiritualized, racconta al Foglio il suo rapporto con la creazione artistica, un Frankenstein che non controlla, ma che insiste e lo reclama. Anche se “più musica fai, più diventa difficile farne di nuova”, ammette il sessantenne musicista inglese, figura di culto della scena alternativa degli anni Ottanta e Novanta, atteso sabato 15 novembre al Teatro Regio di Parma per il Barezzi Festival. Ed è proprio da questa consapevolezza, aggiunge, che nasce “una pressione interna. Vuoi trovare un territorio nuovo, sorprendere te stesso. È un peso, certo, ma è anche il motivo per cui continui”.

Rispetto al 1982, quando fondò gli Spacemen 3, band visionaria di Rugby, cittadina inglese a metà strada tra Londra e la Manchester dei fratelli Gallagher, “è cambiato tutto, sono cambiate le etichette, le circostanze, le strutture”. Una cosa però è rimasta identica, “la necessità di cercare qualcosa di nuovo”. Nel tempo il suo orizzonte artistico si è ampliato. “Quando sei giovane vedi poco, ascolti poco. Poi scopri mondi diversi. L'ispirazione non diminuisce ma anzi cresce”.

  

Nel 1997 Pierce fu il demiurgo dell'universo orchestrale di Ladies and Gentlemen We Are Floating in Space, l'album che lo ha consacrato come autore totale, capace di fondere gospel, minimalismo, noise e arrangiamenti sinfonici. Il progetto si ispirò al romanzo filosofico Il mondo di Sofia di Jostein Gaarder. Fu pubblicato in una scatola simile ad una confezione di medicinali con un blister da cui si estrae il disco e un cd-book stampato come un bugiardino. “Oggi sarebbe quasi impossibile realizzare un lavoro così”, ammette. “All'epoca circolavano molti più soldi, grazie alle vendite dei CD. E potevo usarli per tentare cose che allora sembravano impossibili, come un coro o una sezione d’archi”. Ma l'ambizione, insiste, “non dipende dal budget, se provi ad andare oltre ciò che conosci, entri comunque in territori difficili e nuovi. L'ambizione non appartiene ai decenni, appartiene alle persone”.

Netto il suo giudizio sulle piattaforme di streaming. “Non pagano gli artisti, è un pessimo modello di business”, dice. Ma al tempo stesso riconosce il loro enorme valore. “È straordinario poter ascoltare qualsiasi cosa spingendo semplicemente un tasto: reggae giamaicano anni '60, soul del profondo Sud e così via. Un tempo potevi ascoltare solo ciò che qualcuno vicino a te possedeva. L'accesso è sempre un bene”.

Pierce rifugge i social, ma non il contatto umano. “Mi fermo sempre a parlare con il pubblico. A volte sembra folle viaggiare migliaia di chilometri per suonare soltanto un'ora, ma poi sali sul palco, guardi chi hai davanti e capisci perché sei lì”. Più defilato invece sulla reunion degli Oasis, che ha riacceso l'attenzione sulla scena musicale inglese e sul Britpop. “La gente vuole rivivere ciò che c'era venti o trent'anni fa. Non è mai stato mio quel mondo. Sono sempre stato attratto da chi apre nuovi spazi”. Lo dimostra l'ultimo album degli Spiritualized, Everything Was Beautiful del 2022, in cui Pierce ha suonato sedici strumenti. Non certo per virtuosismo, infatti “chiunque può fare musica, è un'emozione, non un'abilità. Quando produci un disco insegui una visione, cerchi di orientare chi suona verso quel punto. Non è controllo, è una guida”.

Dopo più di quarant'anni di carriera, il rischio di cadere nella banalità quando si canta la fragilità umana è sempre in agguato. Ma Pierce lo affronta senza esitazioni. “La banalità è un buon punto d’ingresso nella musica. I cliché funzionano. Quante grandi canzoni parlano d'amore, morte, tragedia?”, si chiede il cantante. La chiave, secondo lui. “è trasformare qualcosa di personale in qualcosa di universale. Non è un diario, è un passaggio di mano”. La musica, conclude, non è un ponte verso Dio, “ma una connessione con tutte le persone”.

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