La rivoluzione analogica di Sergio Caputo: “Ho visto morire il disco, ma la musica è ancora viva”

Raffaele Rossi

Dalla Silicon Valley dei tempi dell’iPod ai palchi italiani del 2025: il cantautore torna in tour e racconta come la tecnologia ha cambiato tutto, tranne una cosa: l’emozione di suonare dal vivo. A 71 anni, l’autore di "Un sabato italiano" torna in scena con due spettacoli e un documentario Rai

Ero in California quando Steve Jobs presentò l'iPod. Con quel piccolo aggeggio chiunque poteva scaricare i brani che amava e portarli con sé. Ma quella rivoluzione tecnologica, presto, ha cambiato tutto. La gente ha smesso di comprare dischi e il diritto d'autore è morto. L'unico modo che abbiamo noi musicisti per guadagnare oggi è il live”. Sergio Caputo consegna al Foglio un quadro preciso: un italiano con la sua chitarra, nel cuore della Silicon Valley, mentre nasce la rivoluzione che cambia per sempre il modo di ascoltare la musica. Da un lato il futuro compresso in un hard disk grande quanto una scatola di fiammiferi, dall'altro un musicista convinto che le canzoni debbano respirare, non comprimersi. L'artista ha visto la musica passare dall'artigianato all'algoritmo, ma continua a suonarla con lo stesso spirito di un jazzista esordiente al tavolino di un bar. A 71 anni, con l'ironia che scivola sulle sillabe come le dita sui tasti del pianoforte di Bimba se sapessi, Caputo racconta il suo ritorno sui palchi con due spettacoli, “Sergio Caputo Trio” e “Ne approfitto per fare un po' di musica”, riprendendo il suo primo album live del 1987. Un titolo “scelto per dare al pubblico qualcosa di familiare. Dopotutto ho pubblicato più di 250 canzoni esplorando tante direzioni musicali”. La tournée parte il 22 novembre da Roma con tappe nelle principali città italiane, proseguendo anche nel 2026. Lo show si divide tra la precisione di una partitura e l'imprevisto di una jam. “Non amo dare la scaletta in anticipo, è come spoilerare un film. Ogni concerto ha la sua struttura”, dice. Ma in un'epoca in cui tutto è calcolato, anche la libertà ha un prezzo: “Oggi devi uscire con un singolo ogni mese e mezzo, altrimenti sparisci. Anch'io mi sono dovuto adeguare, sono su Spotify. Però quando mi chiamano in tv vogliono sempre i brani vecchi, non mi fanno mica suonare quelli nuovi”. Indipendente per vocazione. Caputo lo era quando essere indie non era un'etichetta ma un rischio economico. “Sono stato uno dei primi artisti italiani indipendenti – racconta - e l'ho pagata con una minore visibilità. Ora ho una partnership con Sony: se un pezzo piace, lo pubblicano. Ma io resto libero”. Anche di osservare il presente con una dolce ferocia. “Oggi la musica è usata per diventare influencer, e questo è deprimente”, ammette con la calma di chi ha già visto la storia girare in tondo. Una storia, la sua, che lo vede tornare nella Roma dei suoi inizi insieme a Valerio Lundini, Ubaldo Pantani e Carlo Massarini in un documentario di prossima uscita sulla Rai. La voce di Mettimi giù e Spicchio di Luna continua a pensare al futuro con quella leggerezza che ha sempre usato come un antidoto. “Non si può vivere di morte. Bisogna continuare a pensare al miglioramento, all'essere più civili. Durante la Seconda guerra mondiale negli Stati Uniti nacque un'etichetta, la Victory, pubblicava jazz per tirare su gli animi. La musica serve ancora a questo”. E infatti Caputo, che nella sua carriera ha raccontato l'Italia con ironia, malinconia e swing, non ha mai smesso di credere che “la musica è nata per unire”. E su Sanremo rivela di non avere “pregiudizi generazionali, ma oggi si scelgono gli artisti in base ai follower, non alle canzoni. E poi ci sono i pezzi scritti in otto. È già difficile farne uno buono da soli”. E, prosegue, se dovesse riscrivere oggi Un sabato italiano parlerebbe “delle stesse cose. Credo che ciò che ha funzionato una volta continui a funzionare. I miei figli ascoltano Elvis e i Beatles, le emozioni non invecchiano”. In un'epoca di algoritmi e autoplay, quella di Sergio Caputo è una lezione antica e lucidissima: per restare vivi, bisogna sempre, ostinatamente, “fare un po' di musica”.

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