1956-2025

Addio a Peppe Vessicchio, maestro del sorriso

Francesco Palmieri

Il ricordo del direttore d'orchestra entrato nelle case degli italiani con Sanremo e morto oggi

Se dovessimo ricordare una persona per una sola espressione, quella del maestro Peppe Vessicchio sarebbe il sorriso. Sorrise alla musica, al pubblico, agli amici, alla natura e al successo ma in nome del quale non avrebbe sacrificato nulla del suo “sé” genuino. “Capire” era la sua più grande ambizione: cercava nei delicati meccanismi di una partitura, che fosse pop o classica, le segrete vibrazioni con cui la musica può migliorare la vita e non soltanto vincere un talent o il Festival di Sanremo, anche se è per la lunga presenza alla televisione che i più conoscono il maestro e lo hanno amato. Non amarlo, d’altronde, era difficile o impossibile: nato a Napoli sotto il segno dei Pesci il 17 marzo del ’56, crebbe al rione Cavalleggeri sotto un cielo che allora “diventava rosso all’improvviso” non per il tramonto, ma per le colate di acciaio liquido dell’Italsider. Vessicchio lo ricordò nell’autobiografia scritta con Angelo Carotenuto qualche anno fa, e ricordava pure di quando giocava con gli amici rincorrendo il pallone “fra pagliuzze e cumuli di lana che parevano neve” ma testimoniavano l’insidiosa presenza della Eternit. Però presto s’innamorò della chitarra e scoprì la bellezza del pianoforte ascoltando “I’m in the Mood for Love”.

 

Se avesse avuto un padre meno comprensivo sarebbe diventato architetto, ma il suo capì l’amore per la musica e lo lasciò fare, mentre Peppe si scopriva anche un talento comico cui poi avrebbe rinunciato abbandonando il gruppo dei Trettré. Fu più forte il richiamo dell’orchestra, della composizione, degli arrangiamenti. Quando approdò a Sanremo, nel 1990, nemmeno immaginava che da direttore d’orchestra avrebbe vinto quattro edizioni, la prima nel 2000 con “Sentimento”, un pezzo elegantissimo degli Avion Travel.

Peppe (o Beppe, come lo chiamavano da Roma in su) non si fermava mai, senza alcuna smania di presenzialismo era sempre presente quando un artista che riteneva meritevole ne domandasse la collaborazione. L’elenco sarebbe troppo lungo: un solo ricordo per tutti, che oggi suona più emblematico, è il brano “Ti lascio una canzone” scritto con Gino Paoli.

 

Non ebbe un volto pubblico diverso dal privato, non indossava mai la maschera del personaggio. Piaceva perché non cercava di compiacere. Napoletano di quel genere che ha eletto la cultura della sua città a riferimento ma non vi si è rinchiuso, continuò a indagarla con l’inesauribile sete di conoscenza per cui affascinava gli amici, un cenacolo cui offriva assieme alla moglie Enrica discorsi sulla spiritualità e cene gustosissime, aneddoti artistici e resoconti delle tante letture che spaziavano dalle scienze all’enologia, dalla storia della pizza alla vita di Mozart, al quale ha dedicato un libro appena uscito (“Bravo bravissimo!”) e destinato ai ragazzi. È stata l’ultima amorosa fatica di cui avrebbe dovuto godere i risultati nei prossimi giorni se avesse avuto almeno quello scampolo di tempo in più.

L’esposizione dei ricordi personali è consentita se illumina qualche ulteriore tratto di un volto tanto noto. Solo per questo posso dirvi di quando riscoprii una romanza di Ferdinando Russo e Francesco Paolo Tosti (“Chi sa!”) e il maestro ne recuperò la partitura e volle eseguirla in un concerto estivo; posso dire di quando, durante il Covid, approntò un componimento che avrebbe fatto bene al corpo e all’anima degli amici, perché la musica non è solo faccenda estetica; e ancora i suoi racconti appassionati su artisti che prediligeva come Mario Pasquale Costa; la sua curiosità per le sonorità perdute, dai maestri “viggianesi” agli strumenti d’epoca di Calace, facendo visita all’erede del grande liutaio. Vorrei dire dell’amore immenso di Peppe per gli animali, per la campagna vissuta come una interlocutrice perché la sua ricerca di armonia non si confinava alle sale d’incisione o al palcoscenico ma ricadeva nella vita, e perfetta fu l’armonia con la famiglia e la compagna di sempre, sensibile scrittrice e formidabile sostegno.

Non ha smesso fino all’ultimo di lavorare (ha voluto il pc in ospedale) e il suo ultimo insegnamento è in una frase che solo ora interpreto come un congedo: “Sono veramente molto sereno”. Come lo vedevate, così era.

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