Andrea Laszlo De Simone (foto di Giovanni Canitano) 

musica e immagini

La canzone d'autore è l'eremo esistenziale di Andrea Laszlo De Simone

Stefano Pistolini

Dentro il nuovo album “Una lunghissima ombra” c’è tutto il mondo dell'artista, figura atipica per questo presente musicale: la sua immaginazione che gronda passione e la predisposizione naturale a scrivere, suonare e cantare una musica che è prima di tutto commozione e crogiolo di malinconie

In tanti ci siamo accorti di Andrea Laszlo De Simone ascoltando lo stravagante e bellissimo singolo “Vivo”. E in molti ci siamo innamorati della sua personale concezione musicale, che conteneva cose che non ascoltavamo (e non ci suggestionavano) dai tempi migliori di Franco Battiato, prima della sua trasversale santificazione. Ma finora Laszlo (come si fa a prescindere dal chiamarlo così?) è diventato molto più popolare in Francia che in Italia, sia per i suoi dischi che precedono questo nuovo – “Una lunghissima ombra” – sia per il consistente premio César, l’Oscar francese, assegnatogli nel 2024 per la colonna sonora di “Le Règne animal”, film diretto dallo sceneggiatore transalpino Thomas Cailley e ancora inedito da noi.

   

Del resto il lavoro con le immagini fa parte degli interessi principali di De Simone, al punto che ora ha ritenuto d’accompagnare l’uscita del disco con un album visivo, composto da lunghe inquadrature – con inserti testuali tratti dai pezzi – che evidentemente considera connesse alla scrittura. E così già si delinea il quadro, bizzarro, perfino anacronistico rispetto alle abitudini del mercato musicale contemporaneo, che fa da ambiente all’arrivo di “Una lunghissima ombra”, col contorno di un hype che ormai raramente circonda le proposte degli artisti seri della nostra scena. Il fatto è che davvero Laszlo è una figura atipica per questo presente musicale: assente dai social, quasi impossibile da intercettare dal vivo, laconico e circospetto nelle rare interviste che concede, invocando la necessità di riservatezza e un culto del basso profilo a cui si finisce per credere, vista la coerenza che lo anima.

  

Perciò, con l’ausilio dei 67 minuti di video – una successione d’immagini fisse, urbane e paesaggistiche, nelle quali aggirarsi lasciando fluire i ragionamenti e accostandosi al pianeta-De Simone – non resta che l’ascolto attento del suo lavoro. E, a proposito di ragionamenti, sembrano proprio i rovelli intellettuali, sotto forma di flusso, i protagonisti tematici dell’opera, dilagando nel potere emotivo e rappresentativo di una galleria di struggenti melodie, a tratti scosse da ritmi anche sincopati, in un patchwork di diciassette tracce, di cui poco più della metà sono vere e proprie canzoni strutturate, mentre le altre si fermano allo stato di suggestioni minimali, intervalli atmosferici, sonorizzazioni emotive.

  

Ma davanti a quelle composizioni compiute è inevitabile che la soglia di attenzione si elevi, sospinta dalla constatazione che ciò che si sente è qualcosa d’insolito, originale, perfino anacronistico e certamente inatteso per le nostre ultime abitudini musicali. Ascoltando “Ricordo tattile”, “La Notte”, “Quando”, la magnifica “Non è Reale” – che insieme alla title track richiama alla mente il migliore Claudio Rocchi – si ritrovano le emozioni che Laszlo aveva provocato con “Vivo”, per il tramite quella voce nasale, flebile e vibratile manco che arrivi dalla cornetta di un vecchio telefono, immersa in un muro del suono edificato secondo uno spudorata concezione di lirismo, in un profluvio di archi, stratificate orchestrazioni, voci e cori, strumenti popolari (Morricone docet, ma anche Battisti), in un sovrapporsi di suoni reali e simulati, il cui arcano non serve risolvere.

 

Le canzoni hanno un respiro largo, lo stesso del periodo classico di Battiato (“Prospettiva Nevskij”), concepito con lo scoperto gusto di casalinghitudine che appartiene a Laszlo come matrice della sua musica: un passatempo solitario, divenuto nel frattempo una questione maledettamente seria, ma che non lo convince a rinunciare alla sfera privata, alle priorità, la famiglia, l’anelito di serenità, i versi dei bambini che s’affacciano nell’album. Dentro “Una lunghissima ombra” e nei suoi ricorrenti sprazzi di luce, c’è il mondo del 39enne Laszlo, la sua immaginazione che gronda passione, le elucubrazioni, gli interrogativi, questa predisposizione naturale a scrivere, suonare e cantare una musica che è prima di tutto commozione e crogiolo di malinconie, e poi anche stupore e flusso libero e struggimento musicale, in architetture diverse ma tra loro risonanti.

   

Ora non esiste niente di simile in Italia e anche in giro per il mondo non vediamo tante sensibilità così disposte a dar forma musicale ai turbamenti dell’anima, per quanto De Simone citi i Radiohead come prediletti e noi vorremmo sapere cosa pensa della poetica di un Rufus Wainwright. In conclusione nella sua lussureggiante scrittura è piacevole e strano perdersi, a meno che non la si voglia considerare solo un’esperienza tout court, una delle innumerevoli che oggi si fanno a gettone. Noi propendiamo per il rispetto della coerenza di questo artista e della dimensione che lui saggiamente si è ritagliato nel panorama del presente: la canzone d’autore come un eremo esistenziale dove coltivare il gusto e gli amori, condividendoli con calma e quanto basta, perché è certo che il mondo adesso vada in tutt’altra, stordita direzione.

Di più su questi argomenti: