LaPresse
Il libro
L'autoanalisi di Fedez per capire che ne sarà di sé stesso
"L'acqua è più profonda di come sembra da sopra" (Mondadori) è un memoir ed è un libro volta-pagina, che va dal "com'ero" alle numerose incognite sul futuro. C'è il rischio che appaia tardivo, eppure la versione di Fedez si ascolta
Torniamo a parlare di Fedez, anche se adesso è finito fuori moda. Quando fa le serate ancora vende bene, ma la saga dei Ferragnez pare lontana ère geologiche, perché nel frattempo è spuntata, imprevedibile, la voglia d’appassionarsi a questioni più serie, attorno alle quali addensarsi, mentre le peripezie della Barbie-famiglia, con contorno di sponsor, grondavano futilità – come abbiamo fatto a parlarne tanto (eppure quanto piaceva, in alto e in basso)? Ci torniamo perché lo reclama lui, indirettamente, pubblicando un libro, il terzo che firma (dopo “FAQ” e “Quando sarai grande”), il meno studiato, l’assicura lui stesso, perché l’ha scritto per mettere in chiaro alcune cose e raddrizzare certe verità. Per carità, Fedez ammette la presenza di vari editor attorno a lui, che lo incoraggiano a non nascondere niente, cominciando dall’inizio, dall’infanzia, sebbene lui si ostini a dire che non è stata niente di speciale, anzi noiosa, ma poi si sottomette e comincia a ricordare, e però per dispetto lo fa in terza persona, trattando Federico Lucia come un ragazzino qualsiasi, di cui ripercorre le dubitabili imprese.
Il memoir di Fedez s’intitola “L’acqua è più profonda di come sembra da sopra”, espressione sgangherata ad arte, che suggerisce quale sia il tono che il 35enne protagonista utilizzerà per raccontare la storia: “a braccio”, così come viene, mentre salgono a galla le immagini-snodo ai capitoli, col vezzo, qua e là, di fare il ragazzaccio, il bastian contrario, ma che alla fine aderisce alle indicazioni editoriali, perché è Mondadori a mandarlo sugli scaffali, il libro può funzionare, anche se il personaggio non è certo al culmine della parabola, e poi ci sarà stato un anticipo cospicuo e si tratta di vendere, sennò perché scomodarsi a smuovere le faccende sepolte, alcune dolorose. Di sicuro Fedez ha il gusto di calarsi nel melò, d’altro canto bisogna ammettere che di guai nella sua vita ne ha incontrati una certa quantità, e dal momento che il motore della sua emotività pare essere il narcisismo distruttivo, lo slancio a vestire i panni dell’eroe maledetto, ecco che l’inoltrarsi nella lettura delle sue peripezie diventa la contemplazione di un “com’ero”, ricamato nel tessuto della cultura popolare italiana d’inizio 21esimo secolo. In prima fila ci s’imbatte nei temi che hanno fatto di Fedez un buon protagonista prima, un possibile martire poi, e un capro espiatorio adesso.
Quindi: le complicate propaggini della metropoli meneghina, tra Rozzano e Buccinasco, le regole della sopraffazione tra coetanei, le risse, la violenza, i codici del mimetismo come metodo di sopravvivenza, il “non esiste un cazzo duro come la vita”, che se tenete conto della biografia che ci racconta, andrebbe smussato, perché capita d’imbattersi in cazzi ben più duri. Comunque il giovin Fedez è un cane sciolto, uno che si barcamena, abbastanza furbo da cercare vie di fuga e da elaborare vendette (quando fa il cameriere sputa nel caffè dei clienti prepotenti) costantemente attratto dal miraggio che lo chiamava a sé: la musica, come veicolo di riscatto e forse di affermazione, il linguaggio del rap come il più accessibile, gli incontri magici che possono aprirti la strada, finché le cose si mettono per il verso giusto. Ma è solo l’intermezzo che conduce ai paragrafi più appetitosi della faccenda, quelli di cui in tanti non sono mai sazi, intrisi di mitologia spicciola e di profumi dozzinali, ma avvincenti al punto di farne il best seller di un decennio: l’incontro con Chiara, l’innamoramento, il matrimonio, i figli, la vita in vetrina formato smartphone. Come siano andate le cose è risaputo, ma ciò che Federico vuole raccontare è il suo punto di osservazione: quello del pesce fuor d’acqua, un soggetto, anzi un oggetto, estraneo alla schiera di professionisti milanesi malati di coolness, che gli stavano sulle balle per definizione, perché Rozzy una volta, Rozzy per sempre, e perché l’insincerità, come scrive lui, puzza, ed era precipitato nella soap sbagliata. Allora la caduta: la malattia quasi fatale, il fanculo alle pasticche che lo tenevano su, il tentato suicidio mal celato, e poi la ripicca della cattiveria, le pessime compagnie ritrovate, mentre le cronache hanno preso a rivoltarglisi contro – per tacere della saga sanremese, quando ego, superego e inconscio caotico vanno in clash, producendo il disastro.
Adesso arriva il libro-voltapagina, col rischio che appaia tardivo, finisca nel tritacarne, attiri altri fiotti di antipatie e nuove cadute nel fango. Eppure si ascolta la versione di Fedez, senza stare là troppo col bilancino, sopportando la sua tentazione di compiangersi e apprezzandone l’energia. Il personaggio c’è, e le potenzialità ancora esistono. Per farne cosa? L’arte, visto come l’ha bistrattata, adesso sembra un’ipotesi remota. La popolarità va in conflitto col suo essere una contraddizione vivente. E l’aria che tira è della candela che brucia da due parti, oppure del back to the basics dove alcuni hanno trovato purificazione. A Fedez resta la propria forza istintiva, alimentata dalla voglia di trovare requie, chiudere i vecchi conti, capire se per lui c’è ancora un futuro. O se invece gli conviene chiudersi in un laboratorio, recitare la parte dell’adulto miracolosamente sopravvissuto alle sventure. Disposto a spiegare a coloro che gli somigliano, come diavolo si possa fare.
Quanto è dura essere pop