foto dal profilo Facebook dell'Accademia nazionale di Santa Cecilia
all'opera
Umano, mai troppo umano. Wagner e il dolore di dèi ed eroi oltre il mito
Il fascino della “Valchiria” diretta, per la prima volta, da Daniel Harding a Santa Cecilia. E' l'opera che meglio coglie la visione del mondo di Wagner, e la sua attrazione per gli aspetti più "puri" dell'umanità
Mancava a Roma dal 1961, quando al Teatro dell’Opera fu presentata l’intera tetralogia dell’Anello del Nibelungo in forma semi-scenica. L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha deciso di riproporre questo grande viaggio musicale che si svilupperà fino alla stagione 2028/2029: un’impresa che non ha spaventato i vertici ceciliani, spinti anche dalle richieste del pubblico romano che ha esaurito le tre repliche dimostrando che Roma, quando vuole, sa anche ascoltare i suoi dèi in tedesco. Così la stagione si inaugura con un’attesa ancora più marcata: per la prima volta Daniel Harding dirige La Valchiria in una Sala Santa Cecilia completamente trasformata dalle scenografie di Pierre Yovanovitch e dalla regia di Vincent Huguet.
La Valchiria è certamente l’opera più popolare della tetralogia: affascinante e di grande potenza emotiva, probabilmente quella che meglio coglie la visione del mondo di Wagner. E’ qui che il conflitto tra legge divina e compassione umana, la tensione tra potere ed empatia e la possibilità di salvezza attraverso l’amore si manifestano con particolare chiarezza. Sono molti i fili che si intrecciano nella partitura, non tanto a livello di trama quanto nel viaggio interiore che ogni personaggio è chiamato a compiere. Un percorso segnato dal dolore, come spiega Wagner in una lettera alla principessa Sayn-Wittgenstein, sua amica: “Trovo il soggetto di Die Walküre troppo doloroso: non c’è davvero uno dei dolori del mondo che l’opera non esprima, e nella forma più straziante; giocare artisticamente con quel dolore si sta vendicando su di me: mi ha fatto ammalare più volte, tanto da dover interrompere completamente il lavoro”.
Centrale è la figura di Wotan – a Roma un veterano come Michael Volle regge bene le fatiche della parte – che prende consapevolezza di come tutti i suoi sforzi portino solo a un profondo senso di dolore, abbandono, ma soprattutto di perdita. Wotan è costretto a rinunciare alla cosa più preziosa che abbia al mondo: Brünnhilde (una Miina-Liisa Värelä, al debutto nella parte, che nonostante qualche piccola indecisione resta fedele all’indole pasionaria del personaggio). Sembra una sconfitta amara: Siegmund, il figlio amato, è morto (il tenore Jamez McCorkle è la voce che ha meno convinto per intensità e capacità di rendere le sfumature del personaggio), la figlia prediletta è bandita per sempre e i suoi piani – creare un eroe capace di riconquistare l’anello e restituirlo alle Figlie del Reno, salvando così gli dèi – sono andati in frantumi.
In Valchiria tutto accade nella narrazione e non in scena, e di questa fa parte anche l’orchestra che è ovviamente in vista e diventa descrittiva del livello più intimo dei personaggi. Qui la mano di Harding è evidente: cura dei dettagli, controllo di ogni aspetto, fraseggio ricco, articolazione delle frasi musicali mai casuale, gestione equilibrata delle transizioni e l’intuizione di rendere la compagine parte integrante dell’impianto drammaturgico. Forse manca un po’ l’aspetto “epico” (nel segno di una certa tradizione): in alcuni momenti si sarebbe potuto enfatizzare, spingere di più a livello di massa sonora, ma questo avrebbe aumentato lo sforzo già gravoso di un cast vocale chiamato a cantare dietro l’orchestra, dovendone attraversare il muro sonoro.
Sono tanti gli spunti che una prima wagneriana offre. Non vorremmo dimenticare uno dei più sottolineati anche dalle scenografie di Yovanovitch: l’umanizzazione dei personaggi che, lentamente, scendendo dalla scalinata, mostrano il loro lato mutevole, diviso tra legge e dovere, giustizia e compassione. Wagner scava perché attratto dall’umano, dalla ricerca del suo aspetto “puro”, non corrotto dal tempo. Il nazismo, appropriandosene, ne farà un manifesto depravato e fuorviante, ma questo non è l’argomento del nostro dire. Dentro questi fallimenti Sieglinde (il soprano Vida Mikneviciuteė è la regina indiscussa della serata) partorirà Siegfried che si rivelerà l’eroe di cui gli dèi hanno bisogno. Lo vedremo nelle prossime inaugurazioni, avendo fino ad allora tutto il tempo necessario per essere consapevoli di quanta bellezza ci sia in opere come questa.
Quanto è dura essere pop