
Com'era pulp il Vate
Libretto esagerato, ma Zandonai orchestrava a meraviglia: "Francesca da Rimini" a Torino
Un’opera atipica, costruita su brevissimi incisi melodici che spiccano nel declamato generale e cellule melodiche ripetute e ostinate, e qui si pensa davvero a Janacek. In breve: merita. Recensione
Per fortuna i sottotitoli sono anche in inglese. Ci fossero solo quelli italiani, si capirebbe pochissimo del libretto della Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, inaugurazione di stagione del Regio di Torino, che è frutto di un abile taglia e cuci (soprattutto taglia) operato da Tito II Ricordi sulla tragedia di D’Annunzio ispirata a babbo Dante. Sull’incolpevole spettatore vengono riversati fiumi di parole, altro che i Jalisse, e che parole: arcadore, gualdana, falariche, ghiado, redole, targone, boh…
L’incontinenza verbale del Vate tracima fra decadentismi assortiti, preziosismi eruditi, delirii declamatorii ed efferatezze più pulp di qualsiasi Tarantino, anzi Dario Argento (siamo pur sempre a Torino), ambientati però in località che evocano piadine e ombrelloni, con la Rimini del titolo che curiosamente diventa “Rimino” nel testo: manca solo Riccione. Però l’opera merita. Ovviamente Wagner è presente, presentissimo, ma questo Zandonai del 1914 non è soltanto un Tristano dei poveri, come malignava qualche malvagio nell’intervallo. Un’opera atipica, costruita su brevissimi incisi melodici che spiccano nel declamato generale e cellule melodiche ripetute e ostinate, e qui si pensa davvero a Janacek. Quella che è straordinaria, in Zandonai, è l’orchestrazione, raffinatissima, all’altezza della meglio Europa fin-de-siècle, Debussy o Strauss: non è un caso che i momenti più affascinanti siano strumentali, come il finale del primo atto con l’incontro, muto, fra Paolo e Francesca.
Operona, dunque, un tempo anche popolare perfino in provincia. Ovvio che oggi non si possa più farla come allora, con Magda Olivero o Raina Kabaivanska attaccate “full time” alle tende. Al Regio, teatro che pare oggi pacificato e ben gestito dopo anni difficili, hanno chiamato a metterla in scena il talentuoso Andrea Bernard, che lavora per sottrazione: tutto in uno stanzone bianco, la cameretta di Francesca con relativo doppio di lei bambina che sogna un matrimonio vero, non con Gianciotto lo sciancato (sì, è body shaming, ma il libretto dice così) e dove fa irruzione un bellissimo prato fiorito quando arriva Paolo sì bello e perduto.
È uno spettacolo intelleggibile, intelligente e ben realizzato. Funziona anche Andrea Battistoni, neodirettore musicale del Regio. Intanto, orchestra e pubblico lo amano, che per fare il direttore musicale di un teatro non è indispensabile ma aiuta, e poi sono ben differenziati e ben realizzati sia i momenti estetizzanti che quelli energizzanti. Regge Roberto Alagna, Paolo, voce ferma e timbro ancora malioso; per George Gagnidze la parte di Gianciotto è perfetta; bravissimo, il migliore in campo, Matteo Mezzaro isterico Malatestino, e lussuosissimo il pattuglione dei comprimari. Lei, Barno Ismatullaeva, è molto soddisfacente per come regge impavida una parte onerosa, ma manca un po’ di personalità: rinunciare alle tende va bene, ma per un’opera del genere il carisma ci vuole. Alla matinée della terza età, macché riserbo sabaudo: i diversamente giovani hanno acclamato con sorprendente energia.

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