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moralismo digitale

Le Swifties si disperano perché la loro idola “è cambiata”. La volevano infelice

Ester Viola

Nell'ultimo album Taylor è perfettamente riconoscibile e non cambia tono. E infatti non è la musica il punto. Il punto è che adesso si è fidanzata, è felice, e si è rotto il patto con il fandom contemporaneo che l'aveva usata come antidepressivo. Ecco l'agghiacciante versione post-moderna del sentimentalismo democratico 

L’anno scorso, nel mezzo di un tour senza tregua, Taylor Swift celebrò il massimo del trionfo artistico e commerciale di chiunque, il nessuno-nella-storia-come-me. La bionica Taylor, nelle pause (dieci minuti?) tra una data e l’altra, 52 spettacoli dove si cantava e si ballava con tacchi e stivali, costumi a bustino rigido coi lustrini indossati anche a 45 gradi in Brasile, annunziò, e si faticò a crederle, che stava anche scrivendo un nuovo album in uscita nell’autunno 2025. Riesce a produrre quasi un album all’anno, all’interno del quale, a intervalli non regolari, spiccano hit molto piacevoli come “Cruel Summer” che finiscono colonne sonore su Instagram, e sono buoni successi destinati a durare qualche anno.  

Si tratta di un macrofenomeno pop con poche spiegazioni tecniche con riferimento alle proporzioni, e quindi se ne parla poco e sorvolando, se si può. Con finta-indifferente cautela, perché nessuno sa bene cosa dire. Sono numeri, quelli, che non si possono liquidare con le spallucce e i che-vuoi-che-sia-piace-alle-ragazzine. Bisogna farsi coraggio e chiedersi: chi è? I nuovi Beatles? La nuova Michael Jackson? (le domande sono del New York Times). L’unica cosa che possiamo ammettere, noi spettatori di fenomeni contemporanei da almeno tre decenni, è questa: non sembra che una delle canzoni di Taylor Swift sia dotata della stessa forza di resistenza al tempo e del potere ipnotico di farsi riascoltare come succedeva a una “Don’t look back in anger”, anni fa. Nel 2023, secondo il servizio di raccolta dati Luminate, una canzone su 78 trasmessa in streaming negli Stati Uniti era di Taylor Swift. Con un mix di massiccia produzione artistica e implacabile senso degli affari, oltre a una egemonia in celebrità, Taylor Swift ha creato un tale ritorno che è probabilmente più popolare dopo vent’anni anni di carriera di quanto non sia mai stata. Non è una cosa normale.  

L’incredibile assioma dei social: l’onnipresenza paga. La gente si stufa se ci sei poco, non se ci sei troppo. La parte spassosa è che Taylor Swift canta musichelle da ragazza spesso ferita, recriminante e bisognosa di vendette e affermazione pur essendo milionaria da inizio carriera, furba, alta, talentuosa, di pensiero muscolare nonché splendida fotomodella. Gli osservatori più esperti notano che inizia a scricchiolare qualcosa proprio durante l’Eras tour, l’ultimo. Perché c’era, spesso sugli spalti, il fidanzato. Un americanone, ragazzo alto e atletico, capitano imbattibile di una grande squadra di rugby, nella parte dell’innamorato devoto. Travis Kelce canta le canzoni, accenna goffe mosse di danza, la guarda con occhi a cuore, addirittura partecipa allo spettacolo e fa un’uscita vestito in frac. Impossibile non notare che Taylor non sta nei panni da quant’è contenta. Finalmente, dopo tutte le sfortune.

E torniamo quindi al nuovo album annunciato, che è uscito da poco e non cambia tono. E’ la riconoscibile Taylor Swift, con qualche testo più romantico, altri più cattivelli, entrambi però appartenenti allo specifico Tayloriano – si erano già viste canzoni con quel taglio. Quello che cambia sta da un’altra parte. Le fan, che si chiamano Swifties, quasi in blocco, hanno perlopiù contestato  il disco. Non sei più quella di prima, dicono. Che ti è successo? Ma in che senso, ci si chiede fuori dalla setta, tra non-Swifties, ascoltando le canzoni? Dove sta la differenza? Non la sentiamo. Non era la musica, il problema, era la felicità. Tutte le fan che l’avevano amata come un antidepressivo hanno bocciato le nuove canzoni: “E’ cambiata”, “non è più lei”, “non ci rappresenta”.

Il senso è: adesso noi a chi affidiamo il dolore? E’ l’equivoco del fandom contemporaneo: l’idolo è una proiezione. Non importa cantare, ballare o dipingere, l’arte sta nel sentire in modo sincronizzato alla community. Taylor Swift è guarita da sola, senza avvertire. Si è rotto il patto: c’è un dovere di infelicità, dov’è la fedeltà all’angoscia? Non è una cantante, è la tua migliore amica. Che non si deve mai fidanzare. Il pubblico non perdona, la voleva disperata, riconoscibile, compatibile coi propri disastri. E allora si cambia, si smette di seguirla. Così Taylor finisce nella lista dei deludenti.

E’ lo stesso tic malsano che si è visto anche nelle ultime settimane: “Facciamo l’elenco di quelle influencer che non hanno scioperato per la Palestina”, si leggeva giorni fa, con tetro entusiasmo inquisitorio. Liste per non comprare più, non guardare più. C’era una piccola euforia morale che vagava per l’etere: premo “unfollow” e chiudo un conto aperto con l’ingiustizia del mondo. C’è, in questa furia, un distillato nuovo di delusione. Una nuova razza, anzi: la delusione social, che è interattiva. La delusione partecipata che esige il dolore altrui come diritto d’uso. Al servizio clienti si richiede coerenza con “come mi sento io”. L’agghiacciante versione post-moderna del sentimentalismo democratico: se mi rappresenti (sui social), allora mi devi qualcosa, cara mia. E’ la dentizione del follower: all’inizio succhia e assorbe soltanto. Crea il suo idolo. Poi, a un certo punto, gli spuntano i denti. Si sperava che fosse per crescere, e non, come sembra, per prendere a morsi, per pura cattiveria. Dio ci salvi da questo nuovo moralismo digitale, e dall’elenco delle liste delle indegnità degli altri come forma di intrattenimento.   

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