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il nuovo disco

Taylor, inguaribile workaholic, è tornata a ricordarci che può fare tutto

Stefano Pistolini

Con "The Life of a Showgirl", la popstar torna al pop puro e consapevole, confermando il suo status di regina americana e instancabile workaholic. L’album, semplice ma incisivo, è un evento culturale più che musicale

"To the toppermost of the poppermost”, dicevano i Beatles, che erano assai spiritosi, per canzonare l’idea della loro popolarità, che doveva raggiungere vette sempre più sconosciute e inesplorate. Ormai possiamo dire che sono facezie, al confronto con ciò che ha messo insieme l’ultima fidanzata d’America, Taylor Swift, l’ex-ragazza di Nashville che riesce a perforare persino la tempra arcigna degli States èra-Trump, con la problematica rappresentazione dell’essere una tipa normale in una società anormale. Nell’anno e mezzo trascorso dall’ultimo album, Taylor ha messo in scena l’Eras Tour fatto di 149 concerti in cinque continenti, facendone lo show di maggior successo finanziario della storia della musica. Intanto ha provveduto a riacquistare il proprio intero patrimonio editoriale con un accordo su cifre equivalenti al bilancio di un paese africano e poi, di recente, ha informato il mondo che la storia d’amore col campione di football Travis Kelce non è destinata a un malinconico naufragio, come le esperienze sentimentali che l’hanno preceduta, ma invece viaggia velocissima verso il matrimonio, una famiglia, e poi, chissà, una prole bionda, una villa da favola in uno scenario celestiale e tanti albi dei ricordi da riguardare, ripercorrendo gli anni in cui è stata l’americana più famosa del mondo. 


L’interrogativo che segue sembrava destinato a faticare per avere risposta: Swift ce la farà a ripresentarsi nell’arena discografica, col rischio di non poter salire ancora più in alto di così? La domanda ora sembra ingenua e oziosa: è uscito “The Life of a Showgirl”, il suo nuovo album, il dodicesimo della carriera, e altri record hanno preso a sbriciolarsi al solo annuncio – ve ne risparmiamo l’elenco. Sta di fatto che Taylor ha confermato la sua peculiarità più intensa: l’essere un’inguaribile workaholic, malata di musica, iperattiva, nevroticamente schiava del bisogno di rappresentarsi e riconnettendosi con l’interlocutore invisibile rappresentato dai milioni di fans che pendono dalle sue labbra e alimentano la sua vitalità. L’album è stimabilissimo: è semplice, diretto, pieno di suoni soft rock, melodie misurate ed efficaci, testi taglienti e stimolanti su temi contemporanei. Soprattutto è un lavoro che trasuda sicurezza, sapienza e la spavalderia di chi ha capito come penetrare nel cuore di chi ti ascolta. Un’incisività sostenuta dalla ricomposizione del team produttivo dietro i primi successi di Taylor, quello composto dai re mida del pop con passaporto svedese, Max Martin e Shellback, che hanno soppiantato Jack Antonoff e il problematico Aaron Dessner, che l’avevano sospinta (con risultati eccellenti) su una strada più sofferta e introspettiva. In “The Life of a Showgirl” la reference immediata è la Stevie Nicks dei tempi d’oro, con quella sua intangibilità eterea, profetica, descrittiva d’uno status di perfezione americana. E poi mettiamoci l’influsso sentimentale del cowboy con cui Taylor convolerà a nozze, tra l’altro titolare del podcast in una puntata del quale (che ha battuto i record dei record, compreso quello stabilito dall’apparizione di Trump al “Joe Rogan Experience”) lei ha detto al mondo che era pronta a tornare col nuovo disco e che il futuro professionale ancora la interessava, voleva andare avanti e aveva nuove canzoni da farci ascoltare.

Una promessa che ha mantenuto con classe, in un disco in cui il talento è esposto nella sua unicità: dodici pezzi – stavolta niente dispersiva messe di bonus track – in cui Taylor riflette su una vita trascorsa sullo shining floor, nel saliscendi dello showbiz, pagando il prezzo della popolarità con la relativa sensazione di vulnerabilità. Il gioco è “luci vs. ombre”, letto con navigata ironia, spesso autoriferita. Ci sono dei cliché e non tutti i pezzi hanno lo stesso quoziente d’ispirazione, s’incontrano dei passaggi convenzionali, ma questo è il pop, bellezza, e non sempre le migliori star si alzano col piede giusto. I brani sono mediamente più corti, la mano dei due esperti produttori si sente a volte fin troppo, col loro profluvio di trucchetti, ma il risultato complessivo è godibilissimo, ben più in alto della media, sebbene non sorprenda per audacia o ricerca innovativa. Come quando, nella canzone che dà il titolo all’album, Swift scherza su se stessa, dicendo che sa benissimo che non diventerà mai una ragazza cool e che quando dichiarava di non credere nel matrimonio ci amministrava una bugia.

Macché: lei è la regina suburbana, lo sarà ancora per un po’ di tempo e la sua figura assumerà col passare degli anni un ruolo sempre più ieratico, nell’America dilaniata tra il volerle somigliare e il desiderio di accusarla di tradimento. Intanto è tornata, le canzoni sono pronte a essere consumate fino allo struggimento, e per portarsi avanti col lavoro Taylor ha provveduto a nominare la legittima erede, invitandola (unica ospite) a condividere con lei il pezzo migliore: è Sabrina Carpenter, che credevamo fosse solo un’altra Barbie Girl mentre forse è qualcosa di più, allestita nel misterioso laboratorio dove si generano le ultime popstar. Perciò fatevi sotto a discutere di “The Life Of a Showgirl”, perché ogni album di Taylor continua a essere non soltanto un prodotto musicale, ma anche un evento culturale. Incluso questo che, dopo “The Tortured Poets Department”, più scuro ed emotivamente complesso, è un ritorno a un pop puro e consapevole. Come se Taylor Swift ci sussurrasse: “Io posso fare tutto”
 

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