
Giovanni Pierluigi da Palestrina (foto Getty)
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Armonie celesti. Dialogo con il maestro Aurelio Porfiri
Giovanni Pierluigi da Palestrina a 500 anni dalla nascita e il ritorno della musica sacra tra noi, diseducati al bello. Colloquio con il direttore di coro e compositore
La ricorrenza del quinto centenario della nascita di Giovanni Pierluigi da Palestrina, princeps musicae per il Rinascimento e rinomato protagonista del contesto romano durante gli anni della Controriforma, è per la memoria un invito a risalire ad un’epoca che rimane certo senza eguali. La claritas, la proportio, la perfectio di cui egli seppe rivestire le sue partiture, tanto da essere definito – con toni un poco enfatici ma non privi di veridicità – il “salvatore della polifonia”, rimangono espressione emblematica dell’identità più profonda della cultura rinascimentale. Chi conosce la bellezza di quel repertorio non può evitare di cogliere l’abisso che la separa dalle espressioni musicali che spesso accompagnano la liturgia nel nostro tempo, come ripetutamente sottolinea Aurelio Porfiri, direttore di coro e compositore, che di questi temi ha fatto il cuore della sua riflessione. Dal nostro incontro nasce un dialogo su musica, bellezza, liturgia. Sull’eredità che il passato ci affida e sul contesto attuale. Ed è opportuno prendere le mosse dal Rinascimento se proprio attraverso Palestrina la Chiesa, attenta custode del repertorio sacro monodico (più o meno propriamente definito “canto gregoriano”) ritrovava in quegli anni la possibilità di un linguaggio – ideato, dopo gli eccessi del vertiginoso stile fiammingo, quasi “per via di levare” – che fosse conforme allo spirito della liturgia: non mera abilità compositiva, non spettacolo, ma una musica che favorisse realmente la preghiera. “Bisogna tenere presente – sottolinea Porfiri – che la figura di Giovanni Pierluigi da Palestrina è importante non soltanto per i cattolici, ma per l’umanità. La sua grandezza è paragonabile a quella di illustri maestri della nostra tradizione – penso, tra gli altri, a Dante e a Michelangelo – e dunque riveste enorme importanza per la cultura occidentale ma anche per la cultura tout court: la ricorrenza dei 500 anni, per questo, dovrebbe essere celebrata non solo dal mondo della musica, ma più in generale da tutti coloro che amano l’arte e la bellezza”.
“La figura di Giovanni Pierluigi da Palestrina è importante non soltanto per i cattolici, ma per la cultura tout court e per l’umanità”
La storia del compositore nato a Palestrina nel 1525 si colloca stabilmente a Roma, nei continui rapporti con i pontefici, nella guida di illustri realtà musicali, nella prolifica attività compositiva che conduce l’età della polifonia ai suoi vertici assoluti. “E’ importante osservare – nota Porfiri – come nell’opera di Palestrina si raggiunga il perfetto incontro tra testo liturgico e musica: egli attua una vera e propria esegesi del testo biblico compiuta attraverso l’arte musicale, e in tal modo la sua musica sembra scaturire naturalmente dal testo stesso. E’ un fenomeno che talora vediamo accadere anche nelle arti figurative ma qui abbiamo, in ambito musicale, il raggiungimento di vertici inediti e straordinari. E’ una musica di tale chiarezza da sembrare sorta spontaneamente. Questo è il motivo per cui Palestrina ha meritato di essere chiamato – già durante la sua esistenza – principe della musica”. E’, a ben pensarci, ciò che caratterizza la natura del canto cristiano fin dai primi secoli: non una melodia che viene affiancata a un testo, bensì una sorta di innalzamento della voce che, elevandosi al rapporto con l’infinitamente altro, fiorisce in suono per corrispondere alle altezze del sacro. “La sua caratteristica fondamentale – continua Porfiri – è la capacità di spingersi alle profondità del testo: la semplicità che gli si attribuisce (dal latino sine plica, cioè senza pieghe) risiede nella capacità di raggiungere ciò che è essenziale. E’ una semplicità che va al cuore del testo e in tal modo riesce a edificare una grande cattedrale sonora in cui tutti gli elementi testuali sono perfettamente percepibili”.
L’opera di Palestrina rispose in modo estremamente pertinente alle esigenze della Riforma Cattolica, che manifestò la necessità della semplificazione di un linguaggio che, sulla scia di un secolare cammino, aveva raggiunto vertici di complessità inauditi: le polifonie fiamminghe sono artificiose costruzioni in cui il testo si perde nel meraviglioso groviglio di voci che si rincorrono l’una con l’altra in modo così articolato da ottenere effetti sorprendenti ma da destare al contempo più d’una perplessità: i giovani compositori “corrono e non si riposano mai, inebriano le orecchie e non curano gli animi”, osservava, già un secolo prima, Giovanni XXII. Come ribadisce Porfiri, “quando Palestrina nasce, la musica fiamminga aveva sviluppato un contrappunto estremamente – e forse eccessivamente – complesso: le composizioni del Quattrocento fiammingo sono spettacolari, ma quella grande abilità compositiva comportava la perdita del senso espressivo della musica, che veniva sostituito da una sorta di gioco di abilità contrappuntistico. Poi si arriva a Josquin Desprez, figura che costituisce una sorta di ‘ponte’ tra la complessità fiamminga e la semplificazione del Cinquecento: nella sua opera si nota un approccio più votato all’espressività. Palestrina farà sua la lezione di Desprez ponendovi un’anima spiccatamente italiana, il calore dell’espressività, e anche un misticismo così profondo da lasciare l’ascoltatore attonito di fronte all’inaudita bellezza di queste pagine”. Da quel momento in avanti l’opera di Palestrina sarebbe rimasta come riferimento irrinunciabile nell’ambito della musica sacra: una nuova simmetria, la ricerca di equilibrio e proporzione, una compostezza formale che – se non vanno attribuite unicamente a lui, essendo già insite nelle tendenze dell’epoca – trovano nel grande maestro romano il più illustre riferimento.
Josquin Desprez figura “di ‘ponte’ tra la complessità fiamminga e la semplificazione del Cinquecento”. Palestrina farà sua quella lezione
“Dobbiamo chiederci: perché questo tesoro che la tradizione ci consegna è stato oggi escluso dalle chiese?”, si domanda Porfiri. Giungiamo così al tema più delicato, che introduce, in un nesso con il presente, la questione dell’interpretazione dei testi del Concilio Vaticano II: “Il Concilio ha messo a tema la questione della musica sacra, ma alcuni suoi documenti sono stati usati come pretesto per portare avanti delle idee progressiste che, pur pretendendo di richiamarsi ai testi conciliari, ne hanno nei fatti contraddetto i contenuti. Nei testi conciliari si sottolineava, per esempio, il fatto che il canto gregoriano è il canto proprio della liturgia romana, che la polifonia deve essere attentamente conservata, che l’organo è lo strumento ‘principe’ della liturgia; nonostante ciò è accaduto qualcosa di molto diverso che è sotto gli occhi di tutti: il repertorio della tradizione è stato messo da parte, l’organo spesso lasciato in disuso e soprattutto si è consentito l’ingresso in chiesa di una musica che non favorisce affatto la preghiera. Un repertorio dozzinale, ispirato alla musica commerciale, del tutto inadeguato al culto, ha preso il posto della vera musica liturgica”.
“Alcuni documenti del Vaticano II sono stati usati come pretesto per sostenere idee sulla musica che ne hanno nei fatti contraddetto i contenuti”
E’ significativo, in proposito, ricordare come Benedetto XVI – che sottolineò a più riprese l’importanza della musica all’interno della liturgia – non esitasse a evidenziare come la tendenza a favorire la partecipatio actuosa messa a tema nei testi conciliari abbia generato un fraintendimento che ha condotto a un declino della bellezza che all’azione liturgica compete. Ratzinger scriveva infatti: “Nelle esperienze degli ultimi anni una cosa di sicuro si è fatta evidente: il ripiegamento nell’utile non ha reso la liturgia più chiara, ma solo più povera. La semplicità necessaria non va stabilita con l’impoverimento”. In quei passaggi dei suoi scritti il pontefice spiegò come l’idea di partecipazione attiva non debba per forza comportare un’attività esteriore visibile, aggiungendo: “Non sono forse attivi anche il percepire, il captare, il commuoversi?”. “Dobbiamo infatti tenere presente – commenta Porfiri – che la partecipazione non comporta necessariamente un ‘fare qualcosa’: anche ascoltando si partecipa. Potremmo definire partecipazionismo la tendenza a pensare che ognuno debba compiere qualche azione. In ambito musicale non possiamo affidarci a chi non ha alcuna competenza ed è bene ricordare, in proposito, che in un salmo si trova scritto: ‘Cantate a Dio con arte’. La situazione attuale della musica nelle nostre chiese vede invece una situazione disastrosa: l’allontanamento del grande repertorio della tradizione, la scomparsa delle scholae cantorum, l’assenza degli organisti”. Un drastico cambiamento, dunque, che escludendo il repertorio della tradizione ha favorito l’irruzione di una “musica d’uso”: “Potremmo valutare – aggiunge Porfiri – l’idea che si sia portata questa musica in chiesa per avvicinare i giovani: ma dove sono i giovani? Capiamo quindi che si tratta di un’idea scorretta: i giovani, piuttosto, devono partecipare a qualcosa che sia buono, santo e vero. Se qualcuno ha pensato che l’ingresso di questo genere di musica avrebbe favorito il rapporto con i giovani, possiamo vedere che il risultato non è stato raggiunto”.
Appare evidente come il fraintendimento sul tema della partecipazione attiva abbia favorito una perdita sul versante dell’interiorità: se a molti, oggi, il silenzio appare come un “vuoto” è perché è forse mancata un’educazione efficace a questa dimensione fondamentale della fede. E’ inoltre il caso di notare che, a ben vedere, i canti che caratterizzano molte delle nostre liturgie domenicali paiono rivolgersi più al sentimento che alla dimensione contemplativa. “Questo tema – sottolinea Porfiri – è importantissimo. Questo genere di musica ci pone davanti al problema del sentimentalismo, inteso come corruzione del sentimento: questi canti usano certi espedienti musicali per toccare la dimensione del sentimento, ma non hanno propriamente nulla di adatto alla liturgia. Oggi la maggioranza delle persone fatica a riconoscere quale musica è adeguata alla liturgia e quale non lo è, perché negli ultimi decenni è mancata un’educazione del gusto: c’è una tale diseducazione al bello che pochi si rendono conto di questa crisi”.
Avvicinare i giovani con il genere di musica che si sente oggi in chiesa, “ma dove sono i giovani?”. Sentimentalismo a discapito della contemplazione
Si tratta, dunque, di educare alla bellezza. Ed è opportuno, in proposito, ricordare come Benedetto XVI considerasse l’arte musicale una porta spalancata su quella via pulchritudinis che permette di innalzare lo sguardo all’altezza del desiderio che intesse la natura dell’uomo: “La musica – scriveva – ha la capacità di rimandare, al di là di sé stessa, al Creatore di ogni armonia e di suscitare in noi risonanze che sono, per così dire, un sintonizzarsi con la bellezza e la verità di Dio”. In un riferimento a San Bernardo, inoltre, lo stesso pontefice ricordò come egli esigesse la massima attenzione da parte dei suoi monaci nell’esecuzione del canto, considerando una musica eseguita in modo scorretto come una caduta in quella che egli chiamava regio dissimilitudinis. La Chiesa ci immerge nella bellezza per condurci verso noi stessi e verso quella interiorità in cui, attraverso le note ma anche attraverso il silenzio, risiede non la solitudine ma la relazione più profonda. “Tutta la bellezza – conclude Porfiri – è un riflesso di Dio. C’è una bellissima poesia di Tagore che sottolinea il valore della musica: So che ti diletti del mio canto, / che soltanto come cantore / posso presentarmi al tuo cospetto. / Con l’ala distesa del mio canto / sfioro i tuoi piedi, che mai / avrei pensato di poter sfiorare. La bellezza del canto è qualcosa che spalanca l’anima a Dio”.
