
Foto Ansa
estate con ester
La cronistoria di una serata con i fratelli Gallagher
Novantamila cuori a Wembley per una nostalgia che salta, canta e sa di birra. Ritorno al futuro con parka neri, magliette adidas e la più bella canzone del mondo
Si comincia al pomeriggio di sabato. Venti-settantenni escono dalle metropolitane in un clima da stadio con partita già vinta, quasi tutti con le magliette adidas, alcune molto belle che costano oltre cento sterline. La nostalgia di prima categoria, quella che non mette tristezza ma allegria, te la devi pagare e pure a caro prezzo.
Ore 17.30, Wembley Central. Qualcuno mangia da un orrendo cartone dove sta scritto: squisito chicken della Louisiana. Tutti gli altri bevono, ma quanto bevono gli inglesi? Ordinatamente ci mandano ai tornelli, nessuno ha il biglietto di carta, tutti con quelli nei telefoni. Dentro lo stadio ci smistano alle uscite. Si procede ordinati e contenti, ci sono i baracchini del pollo fritto, del merluzzo fritto, delle patatine fritte. Poi c’è un corner più elegantino, con la scritta “champagne”, ma è vuoto.
Ore 18.30. Basta traccheggiare, ci si siede, alle 19 si comincia, c’è Richard Ashcroft, quello bravissimo dei Verve. Due minuti e ci ripensano, e vanno a fare la fila per la birra. Tornano con il cartone da 4 bicchieri grandi.
Ore 19. Richard Aschroft è incredibilmente ben conservato, voce potente e ha la faccia da rockstar come ce l’aveva Mick Jagger. Sappiamo tutti testi, pure se non le ascoltiamo da anni. Strano arnese la memoria, decide lei cosa tenere e tu non comandi niente. Prima dell’ultimo pezzo, “Bitter Sweet Simphony”, Ashcroft dice “e ora mi dispiace per tutti gli altri ma sto per cantare la più bella canzone del mondo”, forse ha ragione, e nel verso “I can change, I can change, I can change” un sole del tramonto, un sole molto italiano, luminoso, si infila tra il tetto e l’ultimo anello dello stadio e così illumina tutta Wembley. Ognuno sta vincendo il mondiale suo, stasera, e contro chi lo sai solo tu. Ritorno al futuro. Le persone che si sentono sensibili alle grandi metafore della vita attraverso le cose che succedono – interpretate forzatamente per cavarne un significato (io) –, con questa luce e questa musica sentono fortissima speranza di un mondo migliore.
Ore 20.10. Ci siamo quasi. Ci si sorride tra vicini di posto e ci capiamo, chissà che lingua è quella con cui non ci si parla e si sta contenti sul cuor della terra, mai più da soli e trafitti dai raggi di sole.
Ore 20.15. Comincia la sigla iniziale, tutti vecchi tweet e titoli turbinosi dei giornali sulla reunion. Il visual, cioè l’accompagnamento delle immagini sugli schermi, è anni 90, un poco pop, un poco labour-periferia-difficile del secolo scorso, bianchi e neri e immagini sgranate. Dicono quelli che se ne intendono di grafiche che era scarso e dozzinale. Non ci credete.
Ore 20.40. Liam Gallagher arriva, s’inchioda al centro e parla. Tutti ridono, quelli che non sanno l’inglese capiscono solo “fucking”.
Ore 20.45. Stanno per cantare la prima hit di quelle che fanno saltare lo stadio, “Some Might Say”, e Liam ordina: “Ora voi vi girate, vi abbracciate e cominciate a saltellare”. E noi ci giriamo, ci abbracciamo e iniziamo a saltellare. Cadono i bicchieri. E’ un lago di birra, cantiamo e saltiamo abbracciati, “some might say the sunshine follows thunder”. Cos’è questa cosa per l’aria? La riconosco: felicità.
Ore 21. Primo cenno di sorriso di Noel Gallagher su “Slide Away”. Liam è più sciolto, lo amano e lo sa benissimo, è acclamato. E’ bello in quel parka nero. Ha stile, ha carattere, ha tutti dalla sua parte. Ogni tanto parte qualche “L-I-A-M, L-I-A-M” dagli spalti.
Ore 21.50. Stanno per arrivare i greatest hit, i Fratelli si separano. A ognuno la gloria sua. “Dont’ Look Back in Anger” e “Masterplan” per Noel. Che capolavori. Noel ha una maglietta nera, i jeans, un poco di pancia e quella faccia storta e i capelli che vanno in sei direzioni. Il fratello dice che pare un pallone con un wheetabix sbricolato sopra.
Ore 22. Torna Liam e lo stadio canta tutte “Wonderwall” e “Champagne Supernova” precisissime. Novantamila che cantano e non sentono la loro voce, e meglio ancora: non ci sentiamo più i pensieri.
Ore 22.15. Il concerto si chiude sulle ultime note che cantano così: “I don’t know why, why, why, why, why”. Poi la musica si allenta, e si spengono le luci, Liam se ne va subito dopo un minuscolo abbraccio al fratello.
Ore 22.20. Noel rimane. Si toglie la chitarra come un ragazzino a cui ne hanno appena regalata una parecchio costosa per Natale, e l’appoggia sul trespolo prima di salutare, le dà una piccola carezza. Lo sanno, che il fratello buono è quest’altro? E’ quest’altro che fa i compromessi. Lo sanno che serve sempre uno in mezzo alle cose che vanno a due che decide di farle funzionare? L’hanno letto Shakespeare?